Il riconoscimento del genocidio ezida

Il riconoscimento del genocidio ezida, updated 6/23/23, 7:02 AM

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Il riconoscimento del genocidio subito dal popolo
ezida è doveroso e necessario


Il 23 maggio 2023, una delegazione dell’Associazione “Verso il Kurdistan Odv”, ha
incontrato, durante un viaggio a scopo umanitario in Iraq, il Consiglio dell’Autonomia
che amministra la regione di Shengal (in lingua kurda), Sinjar (in lingua araba), dove la
delegazione era stata invitata.
Il confronto si è protratto per oltre cinque ore e si è svolto attorno ai problemi di una
comunità particolarmente colpita dall’ISIS e sul futuro della regione, ma anche sulla
necessità di ricordare e di riconoscere, da parte dell’opinione pubblica internazionale,
il genocidio subito dall’etnia kurda di religione ezida.
Tra morti e profughi, la popolazione si è ridotta da 500 mila a 250 mila abitanti. Un
dramma su cui si erano accesi, per lo spazio di un mattino, i riflettori dei media
internazionali, poi prontamente dimenticato nel tempo della memoria breve.
Troppo breve.
Nel 2014, per contrastare l’offensiva dell’ISIS, nella regione abitata prevalentemente
dagli ezidi, un’etnia dalla storia millenaria, erano presenti 25 mila soldati iracheni e 12
mila peshmerga, l’organizzazione militare del governo regionale del Kurdistan iracheno.
L’ISIS è arrivato a Shengal con 1.500 uomini: soldati iracheni e peshmerga hanno
subito abbandonato il campo, lasciando anche le armi alle milizie islamiste.
Non avevano alcuna intenzione di difendere la popolazione ezida.
Entrato in Shengal, l’ISIS ha compiuto il massacro uccidendo 5 mila persone e
sequestrando migliaia di donne e bambini: le donne come schiave del sesso e i bambini
da indottrinare e addestrare come soldati dell’esercito del califfato.
Sembra una storia di altri tempi, ma è di terribile attualità nella logica della guerra
che si abbatte sulle popolazioni civili.
Nel 2014, una parte di coloro che sono riusciti a fuggire, ha cercato riparo sulla
montagna di Shengal, che, con le sue grotte invisibili a chi non le conosce, li ha accolti.
Ma, nell’esodo verso la montagna, centinaia di donne, vecchi e bambini, sono morti di
fame e di sete.
I sopravvissuti hanno trovato, su quei contrafforti, alcuni militanti delle unità di
difesa kurde che erano scesi incontro a loro dai monti Qandil e che hanno respinto i
primi tentativi dell’ISIS di addentrarsi sulla montagna, cominciando, allo stesso
tempo, ad addestrare giovani uomini e giovani donne alla resistenza armata.
Sono sorte così le YBS/YJS, i primi nuclei di autodifesa maschili e femminili della
popolazione ezida, che, nel corso dei secoli, aveva subito diversi massacri. La storia
racconta di 74 ferman, senza mai riuscire ad organizzarsi attivamente.
Non questa volta, quando hanno liberato la loro terra.
Nella lotta contro l’ISIS sono morti/e seicento combattenti delle formazioni di
autodifesa e mille sono rimasti feriti/e. Ai caduti è dedicato il cimitero dei martiri
sulla montagna.
Oggi Sinjar City è una città che è stata completamente distrutta, prima dai
bombardamenti di terra dell’ISIS, per conquistarla e poi dai bombardamenti aerei
della coalizione internazionale per cacciare gli islamisti del califfato. Entrarvi è
impressionante: non ci si trova davanti ai segni di una guerra, ma ad una devastazione
che si presenta come un unico, dirompente scenario di guerra. Nell’idea e nei progetti
del Consiglio dell’Autonomia, la ricostruzione non dovrà rimuovere tutte le macerie
perché in parte dovranno rimanere a futura memoria.
In questi ultimi anni, la popolazione ezida ha conosciuto un’autentica rivoluzione
costruendo una nuova società caratterizzata dall’autodeterminazione democratica. Il
Consiglio dell’Autonomia è composto da tredici donne e da tredici uomini. Le donne
partecipano, per la prima volta da protagoniste, non solo alle formazioni di autodifesa,
ma anche e soprattutto alla vita politica e sociale. Colpisce la giovane età di molte di
loro. Al momento del dramma collettivo, nove anni fa, ieri e allo stesso tempo un’altra
epoca, erano bambine. Con il massacro nei loro sguardi che dicono “mai più”.
Il protagonismo delle donne si esprime soprattutto nell’attività culturale, sociale e
politica della Fondazione delle donne ezide “Taye”, un movimento aperto a tutte le
donne che abitano la regione e non solo alle donne ezide.
Tutti/e, il Consiglio dell’Autonomia e le organizzazioni delle donne chiedono
insistentemente e intensamente che i parlamenti e i governi – nel nostro caso, il
parlamento e il governo italiano – li/le riconoscano come vittime di un genocidio, come
ha già fatto l’Onu, dopo il lavoro svolto dalla Commissione istituita dal Consiglio dei
Diritti Umani.
Nadia Murad, che ha vissuto sulla propria pelle il sequestro da parte dell’ISIS, è stata
insignita del Premio Nobel per la Pace.
Il report “They came to Destroy: ISIS Crimes Against the Yazidis” sostiene
l’applicabilità dell’articolo 2 per la repressione del Crimine di Genocidio del 1948, di cui
anche Siria ed Iraq fanno parte. La condotta delle forze dello “stato islamico”
presenta infatti una brutale, precisa ratio di sterminio degli ezidi in quanto gruppo
etnico: condizione, questa, necessaria per la sussunzione della fattispecie
genocidiaria. Il report è stato redatto in base alle testimonianze di operatori medici e
umanitari, attivisti, giornalisti e sopravvissuti (Maria Teresa Matulli, Istituto Affari
Internazionali).
Oltre che dall’Onu, il genocidio è stato finora riconosciuto dal Bundestag tedesco, dal
Parlamento olandese, da quello belga e da quello australiano.
In Italia, il 26 marzo 2019, La Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera
ha approvato una risoluzione, proposta dall’on. Simona Suriano, che impegnava il
governo ad assumere iniziative per sensibilizzare la comunità internazionale e valutare
le modalità più opportune per riconoscere il genocidio ezida.
Nulla poi è stato fatto.
Si tratta, invece, di un dovere politico, sociale e morale nei loro confronti.
In quel dramma epocale per la popolazione ezida, 5 mila persone sono state uccise, 7
mila sono scomparse dopo il rapimento da parte dell’ISIS, 100 mila sono arrivate in
Europa, 350 mila sono state costrette all’esodo e, in buona parte, si trovano ancora nei
campi profughi in nord Iraq.
Su una popolazione di 500 mila abitanti.
Se questo non è genocidio!
Ricordarlo non significa soltanto essere vicini alla popolazione ezida, ma anche
valorizzare la dignità e la determinazione con le quali sta provando a costruire, a
partire dalle macerie delle case, dei corpi e dell’anima, un futuro intensamente
condiviso come comunità, in una vera parità di genere e nella forma sostanziale di una
democrazia autenticamente vissuta.
Scendendo verso Baghdad, si incontrano ai ceck-point, sulla corsia opposta, furgoni
pieni di povere masserizie con le famiglie che tornano alle radici, dopo anni di
spaesamento nei campi profughi. Andranno a vivere in tende ormai consunte
dell’UNHCR e, da lì, proveranno a ricostruire con pochi, essenziali mattoni grigi, una
piccola casa in muratura. Tra mille difficoltà, la vita pullula di bambini/e nati dopo il
genocidio.
Le altre famiglie sono bloccate nei campi profughi del Kurdistan iracheno, dove il
governo regionale frappone continui ostacoli al loro rientro, peraltro sottoposte a
continui attacchi con droni da parte della Turchia: uno stillicidio quotidiano, con morti
e feriti, di cui nessuno parla. Come delle continue violazioni dello spazio aereo
dell’Iraq. Ma il desiderio di tornare a casa è più forte delle intimidazioni e del terrore
seminato dal regime di Recep Erdogan.
In uno dei villaggi della regione, Serdest, l’Associazione Verso il Kurdistan Odv ha
finanziato la realizzazione di un presidio sanitario: servirebbero decine dei queste
iniziative. Le organizzazioni delle donne ezide chiedono di essere sostenute
nell’apertura e nella gestione di asili per bambini e di laboratori per l’autonomia
economica delle donne. Sono impegnate a liberare, per riportarle a casa, le donne
ezide che si trovano nel grande campo di detenuti di Al – Hol, in Siria, dopo essere
state rapite dall’esercito del califfato.
Sanità e scuola sono i presidi essenziali da cui vogliono e possono ripartire le comunità
ezide.
La loro determinazione, la loro dignità e la loro voglia di futuro non possono essere
lasciate sole.
MA E’ FONDAMENTALE CHE VENGA RICONOSCIUTO DAL MONDO IL
GENOCIDIO DI CUI SONO STATE VITTIME.

Associazione Verso il Kurdistan VIK Odv 31 maggio 2023