About Rete Ambientalista Al
Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza
ERNESTO BALDUCCI: INTRODUZIONE A "LA PACE. REALISMO DI UN'UTOPIA"
Riproponiamo ancora una volta l'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico Grassi, La
pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo libro per le scuole che illustrava ed
antologizzava la tradizione del pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a
Anders. L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al convegno di
"Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di elaborazione piu' alti e
profondi del grande movimento pacifista che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico
dell'est e dell'ovest.
Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922, ed e' deceduto a seguito
di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale,
promotore di numerose iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista "Testimonianze"
nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986. Oltre che infaticabile attivista per la
pace e i diritti, e' stato un pensatore di grande vigore ed originalita', le cui riflessioni ed analisi sono
decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei drammatici problemi dell'ora presente. Opere di
Ernesto Balducci: segnaliamo particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio
(Bompiani); La pace. Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione con Lodovico Grassi;
Pensieri di pace (Cittadella); L'uomo planetario (Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp);
Montezuma scopre l'Europa (Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si
chiude (Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una cosa (Ecp); la raccolta
postuma di scritti su temi educativi Educazione come liberazione (Libreria Chiari); il manuale di
storia della filosofia, Storia del pensiero umano (Cremonese); ed il corso di educazione civica
Cittadini del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su Ernesto
Balducci: cfr. almeno i fondamentali volumi monografici di "Testimonianze" a lui dedicati: Ernesto
Balducci, "Testimonianze" nn. 347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti
umani, "Testimonianze" nn. 373-374, 1995; un'ottima rassegna bibliografica preceduta da una
precisa introduzione biografica e' il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant'anni di
attivita', Libreria Chiari, Firenze 1996; cfr. anche il libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto
Balducci. La Chiesa e la modernita', Laterza, Roma-Bari 2002; cfr. anche almeno Enzo Mazzi,
Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002; e AA. VV., Verso l'"uomo
inedito", Fondazione Ernesto Balducci, San Domenico di Fiesole (Fi) 2004. Per contattare la
Fondazione Ernesto Balducci: www.fondazionebalducci.it]
Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, dinanzi a tale
prospettiva, si fa piu' serrato il confronto tra gli utopisti, secondo i quali e' possibile, in ragione della
stessa smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta' della guerra, e i realisti,
secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, puo' essere custodito solo
dall'equilibrio delle forze in campo.
Il contrasto tra utopisti e realisti e' antico quanto la cultura, ma ha cominciato a diventare acuto agli
inizi dell'eta' moderna. Nel chiudere il quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura
nazionale, Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento Girolamo
Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro l'arte e la natura" ... "e tra le
ridde de' suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche canto della piazza, sorridere
pietosamente il pallido viso di Niccolo' Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli e' durato fino
ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e' che il tempo in cui siamo rende possibile all'utopia di
appropriarsi dei severi argomenti del realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di
integrare in se' le ragioni dell'utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma, non sono piu' gli emblemi
di due opposte e inconciliabili maniere di progettare il bene comune. Com'e' noto, il maestro dei
realisti affidava alla virtu' (che nel suo linguaggio voleva dire abilita' conforme a ragione) il
compito di far fronte alla fortuna e cioe' al corso caotico e imprevedibile degli eventi. A suo
giudizio, fortuna e virtu' potevano governare la storia umana con una incidenza del 50% ciascuna.
Le milizie cittadine erano lo strumento primo della virtu' di un principe. Uno strumento peraltro da
usare all'interno di una preveggenza multiforme delle eventualita' della fortuna. "Assomiglio quella
- dice Machiavelli ragionando della fortuna, nel Principe (cap. XXV) - a uno di questi fiumi
rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa
parte terreno, pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro,
senza potervi in alcuna parte obstare. E benche' sieno cosi' fatti, non resta pero' che gli uomini,
quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo che,
crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe ne' si' licenzioso ne' si'
dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non e' ordinata
virtu' a resisterle".
Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e' il fiume del fuoco atomico,
contro cui nessun argine vale, nessun "provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "citta'"
affidata al principe oggi e', secondo la "verita' effettuale", vorremmo dire materialistica, non Firenze
o l'Italia, ma il pianeta Terra.
Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte all'imperativo assoluto del bene del
Principato, un imperativo ipotetico, legato cioe' a condizioni di fatto, una volta che queste
condizioni mutano, anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare.
*
Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. L'umanita' e' entrata in un tempo nuovo nel
momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o morire. Essa
vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e noi siamo vivi! Non e'
forse vero che l'abisso si e' spaventosamente allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non
avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si sono
andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il riflesso del messaggio di Hiroshima
e dunque un qualche inizio della mutazione.
La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un destino unico di vita o di
morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica
della storia, essa si e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente e piu'
organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e' ormai una verita' economica.
Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che
non e' il Sud a dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la
sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi,
piu' specificamente, perche' esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere,
anzi l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50
milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo:
50 milioni, per l'appunto, nel solo anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio
conosciuto, che la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o dell'ignavia
degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un'immensa quota
dei profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte di
piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di
essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa
struttura di violenza, non hanno piu' la coscienza tranquilla.
La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace, ritenuta da sempre
come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e' arrivato a coincidere con l'istinto di
conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita'
distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale e quella dell'istinto erano
tra loro separate, conciliabili solo mediante un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei
limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum
necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell'istinto di
conservazione (di cui la paura e' un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate
una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia
sta cambiando di qualita'.
La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla sfera della razionalita'. Non
che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo
ragione, ma sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e
cioe' come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il
progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare
il linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento" fausto. Ma
ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio,
l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell'accadimento.
*
Queste tre verita' non trovano il loro giusto contesto nella cultura e nella pratica politica ancora
dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano e' anch'esso di tipo nuovo, non in continuita' con
quello tradizionale. Per pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme idealistiche o
misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle correnti ideologiche che,
nell'eta' moderna, hanno posto a fondamento della politica la ricerca di una pace definitiva. In
questo senso potremmo parlare di tre diversi pacifismi che hanno accompagnato, contestandole, le
culture via via dominanti, il cui dogma centrale e' sempre stato la inevitabilita' della guerra.
Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico perche' ebbe le sue prime
manifestazioni nell'eta' di Erasmo, ma che potremmo chiamare anche, utilizzando un lessico piu'
alla moda, radicale. Il suo principio e' la tolleranza, il suo nemico e' il fanatismo, da quello religioso
a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va posata sulla fede religiosa o su
qualsiasi altra visione del mondo, ma su cio' che negli uomini e' comune, sulla loro natura razionale,
la cui voce e' la coscienza. "Voila' l'ennemi" diceva Voltaire indicando la chiesa cattolica. Il
pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle istituzioni, in particolar modo nell'esercito,
e ripone la causa dello spirito aggressivo nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze. Cio'
che sembra mancare in questo tipo di pacifismo, a causa del suo impianto individualistico, e' la
disponibilita' al confronto e soprattutto la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della
loro capacita', almeno potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al privilegio e di fornirgli
strumenti di diritto per il perseguimento della giustizia e dell'eguaglianza. Ecco perche' esso e' stato
sempre un pacifismo elitario, capace di svegliare le coscienze, ma incapace di mordere realmente
sulle cause che generano i conflitti interni ed esterni alla societa'. Il principio della tolleranza e'
senza dubbio necessario a dar fondamento a una societa' pacifica, purche' pero' venga coniugato con
una militanza politica il cui obiettivo sia la subordinazione delle istituzioni ai fini del bene comune
e della pace.
E' questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la formula ideologica che gli
dettero, al suo nascere, i giacobini, esso identifica la causa delle guerre con le tirannidi, e la
fondazione della pace con l'esercizio effettivo della sovranita' popolare. I popoli amano la pace -
ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperita', la liberta' coincidono con i loro
interessi, mentre la guerra produce sprechi, rovine, servitu' militari. Bastarono i plebisciti di
Napoleone a dimostrare quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E tuttavia l'idea che un popolo,
una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della sovranita', rifugga naturalmente dalle
guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo dopoguerra essa ebbe una splendida reviviscenza con la
dottrina di Wilson che tenne a battesimo la Societa' delle Nazioni. Ma fu proprio nella piu'
democratica delle repubbliche, nata dalle rovine dell'Impero tedesco, quella di Weimar, che
prospero' e trionfo', col rispetto delle regole, il nazismo. Ed oggi noi siamo qui a constatare che un
paese di sicura democrazia formale come gli USA si e' trasformato in una cittadella atomica, alla
cui ombra prosperano in tutto il mondo dittature militari. Il limite dell'ideologia democratica e' che
essa chiama in causa il popolo senza tener conto delle forze che nel suo seno si contrastano e lo
frantumano piegandolo alla loro logica.
La risposta piu' razionale alla questione della pace sembrava averla data il pacifismo socialista.
L'internazionalismo operaio e' senza dubbio l'utopia pacifista piu' straordinaria che sia nata nel
mondo moderno. Il suo strumento di lotta, lo sciopero, e' stato ed e' un'arma non violenta, che ha
modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che esso non e' stato in grado di
arrestare nessuna delle due guerre mondiali: anche quando e' stato indetto, lo "sciopero per la pace"
non ha mai funzionato. Lenin ha aggiornato la dottrina marxista della guerra, dimostrando che essa
e' strutturalmente connessa alla societa' capitalistica e che percio' vivra' e morira' con questa. La
razionalita' della guerra e' nel fatto di portare al limite l'inevitabile crisi del capitalismo e di preparar
cosi' il suo capovolgimento: la rivoluzione. E' quanto avvenne, per suo merito, in Russia. Ma la sua
tesi, smentita per due volte, era che una guerra mondiale avrebbe dovuto generare una rivoluzione
mondiale.
La crisi del pacifismo socialista si e' aggravata in questi ultimi tempi, provocando un collasso
estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di due ordini. La' dove si ritiene di aver gia' realizzato
il socialismo, non solo si e' messo in piedi un apparato di resistenza militare che uguaglia quello
delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica socialista all'imperialismo del
capitale potrebbe anche vedere un dato provvidenziale), ma ha mutuato in pieno la cultura borghese
della repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno liberi dalla logica del capitale, c'e'
attualmente lo stato di all'erta: segno, per molti, che le cause della guerra non sono riducibili
all'economia di mercato.
Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista e' contraddetta almeno da due dati
oggi emergenti: i movimenti pacifisti all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in scena dei
paesi ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze capitalistiche si
equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra parlamentare. Per quanto duttile, il suo pensiero era
ancora succube dello schematismo economicistico. Non solo, ma quello che noi chiamiamo Terzo
Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo capitalista, una specie di immensa retroguardia
del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno scenario storico cosi' imprevisto qual e' quello odierno,
l'ideologia socialista appare ormai inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo all'altezza delle
necessita'. Essa sconta fino in fondo il lato positivistico della sua origine che l'ha tenuta subalterna
all'ideologia borghese. Non e' forse una tesi di Marx e di Lenin che il proletariato e' il naturale erede
della cultura della borghesia, che e' intimamente cultura di violenza? Niente di strano che ben poco
sia rimasto oggi, in occidente, del pacifismo proletario. Non e' forse vero, ad esempio, che, stretti
nel cappio delle necessita' del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro anche nell'immenso
apparato che, in Italia come in tutto il mondo industriale, produce armi da esportare nei paesi del
Terzo Mondo per dar forza ai regimi oppressivi? Marx ed Engels non si sarebbero forse
scandalizzati, dato che per loro la pace sarebbe stata il risultato di una rivoluzione mondiale che,
dandosi la necessita', avrebbe potuto anche far uso della violenza delle armi. Ma che senso ha oggi
parlare di rivoluzione armata, quando le classi dominanti del sistema imperialistico hanno in mano
le armi atomiche?
*
Eccoci, cosi', alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno confusamente, che se ci sara' una
reazione all'altezza dell'estremo discrimine in cui siamo, essa non potra' essere piu' la proposta dei
pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredita', ma un mutamento culturale (la mutazione
di cui sopra si diceva) che metta fine, una volta per sempre, all'eta' neolitica, tanto per usare
un'espressione cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come diceva Marx. Nelle nuove
manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di cambiamento, non solo della politica,
ma dei termini fondamentali della presenza dell'uomo alla storia e al mondo, e cioe' la richiesta del
passaggio da una civilta' che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso sviluppo ad
una civilta' che ponga la sua radice nell'altra valenza dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale,
consolatoria e comunque inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del
proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo, della solidarieta' con
l'intera specie come condizione del suo essere persona.
Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi c'e' anche quello,
remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie. Ora sappiamo che gli uomini preistorici
non erano piu' bellicosi di noi, a volte non lo erano affatto. E' vero: la civilta' (ma questa parola ora
la pronunciamo con piu' pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse non manca mai la guerra.
Ma questo nesso costante tra civilta' e guerra ci autorizza a dedurne che dunque la guerra e' una
legge insuperabile della specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla natura della specie
quello che poi si e' scoperto essere niente piu' che un portato della cultura. Ad esempio, la
schiavitu'. L'opinione comune, fino a due secoli fa, era che la schiavitu' fosse un'esigenza naturale
della societa' umana, proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per eccellenza,
Aristotele. Oggi l'idea stessa di schiavitu' ci ripugna. E cosi': appena oggi si sta sfaldando il
pregiudizio secondo il quale e' la natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da Aristotele a
san Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi anche nel diritto
italiano e' stata sancita la parita' dell'uomo e della donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che
quanto si attribuiva alla natura non era che un portato della cultura.
Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'e' stata l'eta' della pietra e poi
quella del bronzo e del ferro, non potrebbe esserci, dopo la civilta' della guerra, la civilta' della
pace?
E' vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli autori di questa rassegna.
Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle cose non puo' non portare alla previsione della
catastrofe. Ma cio' che e' improbabile, non per questo e' impossibile. La paleontologia dimostra che
la nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalita' (quella fatalita' che invece ha avuto la meglio su altre
specie di animali e di ominidi), mettendo i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo
istinto di conservazione. In questi decenni la specie si trova in una congiuntura del genere: il fuoco
atomico, che la sua intelligenza le ha messo tra le mani, puo' incendiare e distruggere sulla Terra
ogni germe di vita o puo' diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della
storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente nell'unica citta' che e' ormai il nostro
pianeta.
Per la prima volta questa utopia e' diventata realistica, sia nel senso che essa e' per la prima volta
tecnicamente possibile, sia nel senso che essa e' l'unica alternativa alla morte universale Quel che le
manca e', appunto, una cultura che sia al suo livello, cioe', come si e' detto, al livello della voce
della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che succeda alla cultura della guerra di cui noi
siamo figli, cosi' come alla cultura paleolitica successe, piu' di diecimila anni fa, la cultura neolitica
che ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali.
E' vero, il tempo e' breve, cosi' breve che e' gia' un grave obbligo adoperarsi perche' non sia
accorciato. Ed e' questo che da ogni parte viene chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la
mutazione antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa chiama in
causa la societa' in tutte le sue articolazioni organiche, anzi - non dovremmo aver paura a
riconoscerlo - chiama in causa primariamente le singole coscienze. Difatti, alla base della pace c'e'
una virtu' che non puo' essere insegnata: e' la fede dell'uomo nell'uomo e, in generale, la fede
dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e mortificate dalla gelida stagione del
cinismo morale. Non si obietti che questa fede nell'uomo non e' in regola con i rigori della ragione,
perche' e' appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a nient'altro e' intenta se non a
codificare l'esistente e a proiettarne le forme nel futuro, e' proprio questa ragione il primo bersaglio
della fede morale. D'altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede, quella, ad
esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono come seria l'ipotesi di una guerra
al neutrone regionale e controllata!
La fede morale non e' piu' un semplice postulato, un'esigenza cioe' senza riscontro nei fatti. Essa ha
gia' dalla sua parte alcuni processi in corso, il cui senso unitario si svela solo se si assume la civilta'
della pace come loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che stanno battendo in
breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della civilta' della guerra. La prima di queste
premesse e' che l'uomo sia per natura aggressivo, di quell'aggressivita' distruttiva che noi
chiamiamo violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno condotto ad un
punto in cui non ha piu' senso dire che l'uomo e' per natura pacifico o che l'uomo e' per natura
violento. La natura dell'uomo e' nel suo farsi, e' cioe' nella sua cultura. Come dire che l'uomo e' cosi'
come si fa. Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato irreformabile, scritto nei
cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene nella societa' cresciuta all'ombra del fungo atomico.
- Per la prima volta nella sua storia la specie umana e' fisicamente come un individuo solo, secondo
la suggestiva immagine di Pascal: un individuo con la coscienza ancora dispersa e frazionata nel
suo organismo, ma con strutture fisiche e psichiche gia' pronte perche' avvenga l'unificazione
soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, piu' ancora, quella Nord/Sud, sono sempre piu' intollerabili: chi
le tollera e' un ominide il cui sottosviluppo e' insieme intellettuale e morale. Se trionferanno gli
ominidi, il tempo della fine e' gia' segnato, perche' la loro egemonia e' diventata fisicamente
impossibile. Il colosso della civilta' della tecnica - il Nord - ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e
quando lo schiavo si accorge che il padrone non sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il tempo
del padrone e' finito, ed e' finita la sua cultura. Il padrone puo' morire come Sansone o puo' morire
di tranquilla morte naturale, e cioe' il Nord puo' morire sotto le macerie cosmiche provocate dalla
sua tracotanza o puo' morire risolvendosi in una comunita' mondiale senza piu' discriminazioni.
- Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non puo' piu' essere quello che e' stato, non lo puo'
piu' per ragioni fisiche. L'ideologia dello sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai
contro i suoi fautori. Gia' si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la natura che non
e' quello alienante del romanticismo, e' un rapporto su cui batte la luce dell'utopia marxiana
dell'uomo naturalizzato e della natura umanizzata. La passione ecologica e' un capitolo importante
della cultura della pace.
- Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (e' proprio il caso di dirlo)
della violenza e' il modo storico in cui si e' determinato il rapporto uomo-donna, tanto nell'esercizio
della sessualita' quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua bipolarita'. L'emancipazione
femminile, con il connesso mutamento del senso della sessualita', segna potenzialmente un salto
qualitativo nella stessa soggettivita' umana. L'"altra meta' del cielo", anzi l'altra meta' della terra, a
partire dall'eta' neolitica, e' stata mantenuta con violenza al di fuori degli spazi in cui si crea la
storia: l'uomo del neolitico e' un uomo dimidiato e proprio per questo violento. L'emancipazione
femminile e' potenzialmente un altro capitolo della cultura della pace.
- Ma il fenomeno forse piu' rilevante, che da' conforto alla fede nell'uomo, e' la nuova dialettica che
si e' aperta all'interno delle grandi religioni. Possiamo limitarci, e non solo per brevita', al
cristianesimo. La soglia atomica, come si e' detto, in quanto crinale tra morte e vita del genere
umano, e' di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se l'alternativa della vita trionfera', essa non
potra' andare che nel senso di una composizione unitaria del genere umano. Il che significa che tutto
cio' che e' nato e cresciuto con i segni del "particolare" potra' sopravvivere solo se sapra' accettare le
nuove misure di universalita' concreta. Alla pari delle altre religioni, il cristianesimo non potra' non
apparire (e gia' appare) come il patrimonio di una porzione del genere umano. La sua storia, nel
bene e nel male, si confonde con quella dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce come un
pungolo sulla forma storica del cristianesimo, un pungolo che sgretola quel che e' connesso alla
relativita' storico-geografica e, nello stesso tempo, fa emergere il suo nucleo profetico. La profezia
cristiana ha questo di proprio e forse di esclusivo: che e' una profezia messianica, investe cioe' la
totalita' delle speranze degne dell'uomo, prima fra tutte la speranza della pace. In questo senso il
cristianesimo trabocca dai confini religiosi e si commisura, senza sforzi, sulla qualita' laica della
storia.
- Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre confessioni che fanno capo al
Consiglio Ecumenico delle Chiese sta spostando l'asse della propria vita interna o della propria
missione storica dagli spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo decisivo la giustizia
e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo e' gia' in atto. Morendo alle sue terribili stagioni di
complicita' con le guerre, il cristianesimo di ogni confessione mette in evidenza la sua indole di
fondo, che e' la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono che la transizione alla civilta'
della pace e' come un appuntamento storico che Dio ha loro fissato e su cui le giudichera'. Una
chiesa veramente evangelica e' come un'obiezione di coscienza piantata da Dio nella carne viva del
mondo. Ebbene, in questi ultimi tempi le chiese, perfino nei loro vertici istituzionali, che sono piu'
tardi a muoversi e che d'altronde hanno ancora un pesante conto da pagare alla civilta' della pace, si
sentono sospinte sulle trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi il loro no. Secondo alcuni,
e' gia' matura la stagione per un Concilio ecumenico in cui le chiese si ritrovino non per lanciare un
nuovo messaggio al mondo ma per assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze, la
responsabilita' della sopravvivenza del mondo e, in positivo, dell'avvento della civilta' della pace.
- Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando un'indagine commissionata
dall'Unesco, riconosceva che la crisi della scuola era un dato evidente in ogni parte del mondo e
osava affermare che, alla radice di questa crisi, c'era una "mutazione antropologica". Gli autori di
questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si tratti. La scuola, nelle forme e nei
modi che le sono stati assegnati dalla rivoluzione borghese e che nei paesi dell'Est europeo
appaiono aggravati, e' sempre stata l'apparato ideologico destinato a procurare consensi al potere
costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le classi dominanti, per definizione, guardano al
mondo con l'occhio del dominio e cioe' l'occhio che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il
proprio particolare per l'universale, il proprio calcolo per la Ragione, la propria espansione
colonialistica per la diffusione della civilta'. Ma l'occhio fiero del padrone ha bisogno dell'occhio
umile dello schiavo: oggi, finalmente, l'occhio umile non c'e' piu'. Le barriere, almeno dal punto di
vista conoscitivo, sono cadute e nessuna cultura puo' ormai provocare un'eco veramente umana
nelle coscienze se non e' cultura planetaria, e cioe' se il suo punto di vista non e' il punto di vista del
pianeta divenuto l'indivisibile citta' dell'uomo. Per diventare planetaria la cultura deve essere cultura
di pace.
La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base della crisi della scuola e'
proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola e' ancora un organo di diffusione della cultura
padronale che e', per forza di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale con i processi di
crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno semplici palliativi finche'
non scenderanno a questa profondita', per mettere in questione il presupposto antropologico che ha
fatto da dogma latente della cultura occidentale. Tocca alla scuola provvedere alla riforma di se
stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi propri, ai processi di cambiamento che preparano
e prefigurano la cultura della pace.
*
Uno dei modi con cui la scuola puo' inserirsi, con efficacia decisiva, in quei processi e' la
costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria storica diversa da quella codificata nel sapere
dominante. Ed e' un compito che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario e filosofico
che abbiamo ricevuto in eredita'. Tutto cio' che, in questo patrimonio, era riconducibile alla sfera
dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti critici, puntualmente sigillato nella dimenticanza
o relegato ai margini come ingenuo o poeticamente evasivo. E' razionale solo cio' che e' reale: ecco
il dogma implicito o esplicito che ha presieduto alla codificazione del sapere. La parola pace, nei
libri di scuola, serve normalmente per indicare i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco
piu' che interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civilta'. La "verita' effettuale" e'
diversa. E' diversa non solo nell'animo e nel costume dei popoli, che negli annali ufficiali sembrano
piuttosto oggetti che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a cui e' solito
rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno.
E' appunto di questo secondo aspetto della verita' effettuale che la presente rassegna intende offrire
una larga documentazione critica. Il panorama che essa offre e' di necessita' limitato, nel tempo e
nello spazio. Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende origine la politica degli Stati e
congiuntamente si trasforma, anche dal punto di vista tecnico, l'"istituzione guerra". Nello spazio: la
rassegna resta, salvo qualche sortita, nei confini del pensiero occidentale anche perche' e' in
quest'area che la civilta' della guerra ha prodotto le sue grandezze e oggi il suo dilemma mortale.
Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in queste pagine sempre in un
rapporto dialettico con la realta' della guerra e appare sempre, alla prova dei fatti, perdente. Solo
oggi, nell'era di Hiroshima, le due logiche, quella dell'ideale morale e quella della necessita'
realistica, arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma di prospettive morali e politiche.
Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a questo singolare evento
della coincidenza tra utopia e realismo, la loro posizione, anzi hanno voluto apertamente dichiararla
fin da questa lunga premessa. E tuttavia essi sono convinti di non aver fatto forza al senso oggettivo
delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realta' su cui le coscienze possono elaborare, in
modo autonomo, le proprie scelte. Lo strumento che essi hanno preparato intende provocare e
soccorrere, all'interno della scuola, un dibattito che e sicuramente il piu' alto, il piu' universale e, sia
permesso di dire, il piu' religioso tra quelli che fanno ancora della scuola l'occasione piu' importante
per la formazione dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci aiutino a
colmare lacune e a rettificare giudizi per rendere il nostro lavoro sempre piu' adatto ad illuminare e
ad alimentare, dentro e fuori della scuola, la cultura della pace da cui dipende il destino della Terra.
Riproponiamo ancora una volta l'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico Grassi, La
pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo libro per le scuole che illustrava ed
antologizzava la tradizione del pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a
Anders. L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al convegno di
"Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di elaborazione piu' alti e
profondi del grande movimento pacifista che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico
dell'est e dell'ovest.
Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922, ed e' deceduto a seguito
di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale,
promotore di numerose iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista "Testimonianze"
nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986. Oltre che infaticabile attivista per la
pace e i diritti, e' stato un pensatore di grande vigore ed originalita', le cui riflessioni ed analisi sono
decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei drammatici problemi dell'ora presente. Opere di
Ernesto Balducci: segnaliamo particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio
(Bompiani); La pace. Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione con Lodovico Grassi;
Pensieri di pace (Cittadella); L'uomo planetario (Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp);
Montezuma scopre l'Europa (Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si
chiude (Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una cosa (Ecp); la raccolta
postuma di scritti su temi educativi Educazione come liberazione (Libreria Chiari); il manuale di
storia della filosofia, Storia del pensiero umano (Cremonese); ed il corso di educazione civica
Cittadini del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su Ernesto
Balducci: cfr. almeno i fondamentali volumi monografici di "Testimonianze" a lui dedicati: Ernesto
Balducci, "Testimonianze" nn. 347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti
umani, "Testimonianze" nn. 373-374, 1995; un'ottima rassegna bibliografica preceduta da una
precisa introduzione biografica e' il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant'anni di
attivita', Libreria Chiari, Firenze 1996; cfr. anche il libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto
Balducci. La Chiesa e la modernita', Laterza, Roma-Bari 2002; cfr. anche almeno Enzo Mazzi,
Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002; e AA. VV., Verso l'"uomo
inedito", Fondazione Ernesto Balducci, San Domenico di Fiesole (Fi) 2004. Per contattare la
Fondazione Ernesto Balducci: www.fondazionebalducci.it]
Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, dinanzi a tale
prospettiva, si fa piu' serrato il confronto tra gli utopisti, secondo i quali e' possibile, in ragione della
stessa smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta' della guerra, e i realisti,
secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, puo' essere custodito solo
dall'equilibrio delle forze in campo.
Il contrasto tra utopisti e realisti e' antico quanto la cultura, ma ha cominciato a diventare acuto agli
inizi dell'eta' moderna. Nel chiudere il quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura
nazionale, Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento Girolamo
Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro l'arte e la natura" ... "e tra le
ridde de' suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche canto della piazza, sorridere
pietosamente il pallido viso di Niccolo' Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli e' durato fino
ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e' che il tempo in cui siamo rende possibile all'utopia di
appropriarsi dei severi argomenti del realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di
integrare in se' le ragioni dell'utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma, non sono piu' gli emblemi
di due opposte e inconciliabili maniere di progettare il bene comune. Com'e' noto, il maestro dei
realisti affidava alla virtu' (che nel suo linguaggio voleva dire abilita' conforme a ragione) il
compito di far fronte alla fortuna e cioe' al corso caotico e imprevedibile degli eventi. A suo
giudizio, fortuna e virtu' potevano governare la storia umana con una incidenza del 50% ciascuna.
Le milizie cittadine erano lo strumento primo della virtu' di un principe. Uno strumento peraltro da
usare all'interno di una preveggenza multiforme delle eventualita' della fortuna. "Assomiglio quella
- dice Machiavelli ragionando della fortuna, nel Principe (cap. XXV) - a uno di questi fiumi
rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa
parte terreno, pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro,
senza potervi in alcuna parte obstare. E benche' sieno cosi' fatti, non resta pero' che gli uomini,
quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo che,
crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe ne' si' licenzioso ne' si'
dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non e' ordinata
virtu' a resisterle".
Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e' il fiume del fuoco atomico,
contro cui nessun argine vale, nessun "provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "citta'"
affidata al principe oggi e', secondo la "verita' effettuale", vorremmo dire materialistica, non Firenze
o l'Italia, ma il pianeta Terra.
Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte all'imperativo assoluto del bene del
Principato, un imperativo ipotetico, legato cioe' a condizioni di fatto, una volta che queste
condizioni mutano, anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare.
*
Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. L'umanita' e' entrata in un tempo nuovo nel
momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o morire. Essa
vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e noi siamo vivi! Non e'
forse vero che l'abisso si e' spaventosamente allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non
avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si sono
andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il riflesso del messaggio di Hiroshima
e dunque un qualche inizio della mutazione.
La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un destino unico di vita o di
morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica
della storia, essa si e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente e piu'
organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e' ormai una verita' economica.
Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che
non e' il Sud a dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la
sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi,
piu' specificamente, perche' esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere,
anzi l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50
milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo:
50 milioni, per l'appunto, nel solo anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio
conosciuto, che la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o dell'ignavia
degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un'immensa quota
dei profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte di
piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di
essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa
struttura di violenza, non hanno piu' la coscienza tranquilla.
La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace, ritenuta da sempre
come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e' arrivato a coincidere con l'istinto di
conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita'
distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale e quella dell'istinto erano
tra loro separate, conciliabili solo mediante un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei
limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum
necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell'istinto di
conservazione (di cui la paura e' un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate
una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia
sta cambiando di qualita'.
La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla sfera della razionalita'. Non
che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo
ragione, ma sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e
cioe' come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il
progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare
il linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento" fausto. Ma
ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio,
l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell'accadimento.
*
Queste tre verita' non trovano il loro giusto contesto nella cultura e nella pratica politica ancora
dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano e' anch'esso di tipo nuovo, non in continuita' con
quello tradizionale. Per pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme idealistiche o
misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle correnti ideologiche che,
nell'eta' moderna, hanno posto a fondamento della politica la ricerca di una pace definitiva. In
questo senso potremmo parlare di tre diversi pacifismi che hanno accompagnato, contestandole, le
culture via via dominanti, il cui dogma centrale e' sempre stato la inevitabilita' della guerra.
Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico perche' ebbe le sue prime
manifestazioni nell'eta' di Erasmo, ma che potremmo chiamare anche, utilizzando un lessico piu'
alla moda, radicale. Il suo principio e' la tolleranza, il suo nemico e' il fanatismo, da quello religioso
a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va posata sulla fede religiosa o su
qualsiasi altra visione del mondo, ma su cio' che negli uomini e' comune, sulla loro natura razionale,
la cui voce e' la coscienza. "Voila' l'ennemi" diceva Voltaire indicando la chiesa cattolica. Il
pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle istituzioni, in particolar modo nell'esercito,
e ripone la causa dello spirito aggressivo nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze. Cio'
che sembra mancare in questo tipo di pacifismo, a causa del suo impianto individualistico, e' la
disponibilita' al confronto e soprattutto la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della
loro capacita', almeno potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al privilegio e di fornirgli
strumenti di diritto per il perseguimento della giustizia e dell'eguaglianza. Ecco perche' esso e' stato
sempre un pacifismo elitario, capace di svegliare le coscienze, ma incapace di mordere realmente
sulle cause che generano i conflitti interni ed esterni alla societa'. Il principio della tolleranza e'
senza dubbio necessario a dar fondamento a una societa' pacifica, purche' pero' venga coniugato con
una militanza politica il cui obiettivo sia la subordinazione delle istituzioni ai fini del bene comune
e della pace.
E' questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la formula ideologica che gli
dettero, al suo nascere, i giacobini, esso identifica la causa delle guerre con le tirannidi, e la
fondazione della pace con l'esercizio effettivo della sovranita' popolare. I popoli amano la pace -
ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperita', la liberta' coincidono con i loro
interessi, mentre la guerra produce sprechi, rovine, servitu' militari. Bastarono i plebisciti di
Napoleone a dimostrare quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E tuttavia l'idea che un popolo,
una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della sovranita', rifugga naturalmente dalle
guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo dopoguerra essa ebbe una splendida reviviscenza con la
dottrina di Wilson che tenne a battesimo la Societa' delle Nazioni. Ma fu proprio nella piu'
democratica delle repubbliche, nata dalle rovine dell'Impero tedesco, quella di Weimar, che
prospero' e trionfo', col rispetto delle regole, il nazismo. Ed oggi noi siamo qui a constatare che un
paese di sicura democrazia formale come gli USA si e' trasformato in una cittadella atomica, alla
cui ombra prosperano in tutto il mondo dittature militari. Il limite dell'ideologia democratica e' che
essa chiama in causa il popolo senza tener conto delle forze che nel suo seno si contrastano e lo
frantumano piegandolo alla loro logica.
La risposta piu' razionale alla questione della pace sembrava averla data il pacifismo socialista.
L'internazionalismo operaio e' senza dubbio l'utopia pacifista piu' straordinaria che sia nata nel
mondo moderno. Il suo strumento di lotta, lo sciopero, e' stato ed e' un'arma non violenta, che ha
modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che esso non e' stato in grado di
arrestare nessuna delle due guerre mondiali: anche quando e' stato indetto, lo "sciopero per la pace"
non ha mai funzionato. Lenin ha aggiornato la dottrina marxista della guerra, dimostrando che essa
e' strutturalmente connessa alla societa' capitalistica e che percio' vivra' e morira' con questa. La
razionalita' della guerra e' nel fatto di portare al limite l'inevitabile crisi del capitalismo e di preparar
cosi' il suo capovolgimento: la rivoluzione. E' quanto avvenne, per suo merito, in Russia. Ma la sua
tesi, smentita per due volte, era che una guerra mondiale avrebbe dovuto generare una rivoluzione
mondiale.
La crisi del pacifismo socialista si e' aggravata in questi ultimi tempi, provocando un collasso
estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di due ordini. La' dove si ritiene di aver gia' realizzato
il socialismo, non solo si e' messo in piedi un apparato di resistenza militare che uguaglia quello
delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica socialista all'imperialismo del
capitale potrebbe anche vedere un dato provvidenziale), ma ha mutuato in pieno la cultura borghese
della repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno liberi dalla logica del capitale, c'e'
attualmente lo stato di all'erta: segno, per molti, che le cause della guerra non sono riducibili
all'economia di mercato.
Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista e' contraddetta almeno da due dati
oggi emergenti: i movimenti pacifisti all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in scena dei
paesi ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze capitalistiche si
equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra parlamentare. Per quanto duttile, il suo pensiero era
ancora succube dello schematismo economicistico. Non solo, ma quello che noi chiamiamo Terzo
Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo capitalista, una specie di immensa retroguardia
del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno scenario storico cosi' imprevisto qual e' quello odierno,
l'ideologia socialista appare ormai inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo all'altezza delle
necessita'. Essa sconta fino in fondo il lato positivistico della sua origine che l'ha tenuta subalterna
all'ideologia borghese. Non e' forse una tesi di Marx e di Lenin che il proletariato e' il naturale erede
della cultura della borghesia, che e' intimamente cultura di violenza? Niente di strano che ben poco
sia rimasto oggi, in occidente, del pacifismo proletario. Non e' forse vero, ad esempio, che, stretti
nel cappio delle necessita' del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro anche nell'immenso
apparato che, in Italia come in tutto il mondo industriale, produce armi da esportare nei paesi del
Terzo Mondo per dar forza ai regimi oppressivi? Marx ed Engels non si sarebbero forse
scandalizzati, dato che per loro la pace sarebbe stata il risultato di una rivoluzione mondiale che,
dandosi la necessita', avrebbe potuto anche far uso della violenza delle armi. Ma che senso ha oggi
parlare di rivoluzione armata, quando le classi dominanti del sistema imperialistico hanno in mano
le armi atomiche?
*
Eccoci, cosi', alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno confusamente, che se ci sara' una
reazione all'altezza dell'estremo discrimine in cui siamo, essa non potra' essere piu' la proposta dei
pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredita', ma un mutamento culturale (la mutazione
di cui sopra si diceva) che metta fine, una volta per sempre, all'eta' neolitica, tanto per usare
un'espressione cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come diceva Marx. Nelle nuove
manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di cambiamento, non solo della politica,
ma dei termini fondamentali della presenza dell'uomo alla storia e al mondo, e cioe' la richiesta del
passaggio da una civilta' che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso sviluppo ad
una civilta' che ponga la sua radice nell'altra valenza dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale,
consolatoria e comunque inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del
proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo, della solidarieta' con
l'intera specie come condizione del suo essere persona.
Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi c'e' anche quello,
remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie. Ora sappiamo che gli uomini preistorici
non erano piu' bellicosi di noi, a volte non lo erano affatto. E' vero: la civilta' (ma questa parola ora
la pronunciamo con piu' pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse non manca mai la guerra.
Ma questo nesso costante tra civilta' e guerra ci autorizza a dedurne che dunque la guerra e' una
legge insuperabile della specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla natura della specie
quello che poi si e' scoperto essere niente piu' che un portato della cultura. Ad esempio, la
schiavitu'. L'opinione comune, fino a due secoli fa, era che la schiavitu' fosse un'esigenza naturale
della societa' umana, proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per eccellenza,
Aristotele. Oggi l'idea stessa di schiavitu' ci ripugna. E cosi': appena oggi si sta sfaldando il
pregiudizio secondo il quale e' la natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da Aristotele a
san Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi anche nel diritto
italiano e' stata sancita la parita' dell'uomo e della donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che
quanto si attribuiva alla natura non era che un portato della cultura.
Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'e' stata l'eta' della pietra e poi
quella del bronzo e del ferro, non potrebbe esserci, dopo la civilta' della guerra, la civilta' della
pace?
E' vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli autori di questa rassegna.
Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle cose non puo' non portare alla previsione della
catastrofe. Ma cio' che e' improbabile, non per questo e' impossibile. La paleontologia dimostra che
la nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalita' (quella fatalita' che invece ha avuto la meglio su altre
specie di animali e di ominidi), mettendo i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo
istinto di conservazione. In questi decenni la specie si trova in una congiuntura del genere: il fuoco
atomico, che la sua intelligenza le ha messo tra le mani, puo' incendiare e distruggere sulla Terra
ogni germe di vita o puo' diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della
storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente nell'unica citta' che e' ormai il nostro
pianeta.
Per la prima volta questa utopia e' diventata realistica, sia nel senso che essa e' per la prima volta
tecnicamente possibile, sia nel senso che essa e' l'unica alternativa alla morte universale Quel che le
manca e', appunto, una cultura che sia al suo livello, cioe', come si e' detto, al livello della voce
della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che succeda alla cultura della guerra di cui noi
siamo figli, cosi' come alla cultura paleolitica successe, piu' di diecimila anni fa, la cultura neolitica
che ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali.
E' vero, il tempo e' breve, cosi' breve che e' gia' un grave obbligo adoperarsi perche' non sia
accorciato. Ed e' questo che da ogni parte viene chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la
mutazione antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa chiama in
causa la societa' in tutte le sue articolazioni organiche, anzi - non dovremmo aver paura a
riconoscerlo - chiama in causa primariamente le singole coscienze. Difatti, alla base della pace c'e'
una virtu' che non puo' essere insegnata: e' la fede dell'uomo nell'uomo e, in generale, la fede
dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e mortificate dalla gelida stagione del
cinismo morale. Non si obietti che questa fede nell'uomo non e' in regola con i rigori della ragione,
perche' e' appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a nient'altro e' intenta se non a
codificare l'esistente e a proiettarne le forme nel futuro, e' proprio questa ragione il primo bersaglio
della fede morale. D'altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede, quella, ad
esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono come seria l'ipotesi di una guerra
al neutrone regionale e controllata!
La fede morale non e' piu' un semplice postulato, un'esigenza cioe' senza riscontro nei fatti. Essa ha
gia' dalla sua parte alcuni processi in corso, il cui senso unitario si svela solo se si assume la civilta'
della pace come loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che stanno battendo in
breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della civilta' della guerra. La prima di queste
premesse e' che l'uomo sia per natura aggressivo, di quell'aggressivita' distruttiva che noi
chiamiamo violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno condotto ad un
punto in cui non ha piu' senso dire che l'uomo e' per natura pacifico o che l'uomo e' per natura
violento. La natura dell'uomo e' nel suo farsi, e' cioe' nella sua cultura. Come dire che l'uomo e' cosi'
come si fa. Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato irreformabile, scritto nei
cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene nella societa' cresciuta all'ombra del fungo atomico.
- Per la prima volta nella sua storia la specie umana e' fisicamente come un individuo solo, secondo
la suggestiva immagine di Pascal: un individuo con la coscienza ancora dispersa e frazionata nel
suo organismo, ma con strutture fisiche e psichiche gia' pronte perche' avvenga l'unificazione
soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, piu' ancora, quella Nord/Sud, sono sempre piu' intollerabili: chi
le tollera e' un ominide il cui sottosviluppo e' insieme intellettuale e morale. Se trionferanno gli
ominidi, il tempo della fine e' gia' segnato, perche' la loro egemonia e' diventata fisicamente
impossibile. Il colosso della civilta' della tecnica - il Nord - ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e
quando lo schiavo si accorge che il padrone non sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il tempo
del padrone e' finito, ed e' finita la sua cultura. Il padrone puo' morire come Sansone o puo' morire
di tranquilla morte naturale, e cioe' il Nord puo' morire sotto le macerie cosmiche provocate dalla
sua tracotanza o puo' morire risolvendosi in una comunita' mondiale senza piu' discriminazioni.
- Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non puo' piu' essere quello che e' stato, non lo puo'
piu' per ragioni fisiche. L'ideologia dello sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai
contro i suoi fautori. Gia' si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la natura che non
e' quello alienante del romanticismo, e' un rapporto su cui batte la luce dell'utopia marxiana
dell'uomo naturalizzato e della natura umanizzata. La passione ecologica e' un capitolo importante
della cultura della pace.
- Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (e' proprio il caso di dirlo)
della violenza e' il modo storico in cui si e' determinato il rapporto uomo-donna, tanto nell'esercizio
della sessualita' quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua bipolarita'. L'emancipazione
femminile, con il connesso mutamento del senso della sessualita', segna potenzialmente un salto
qualitativo nella stessa soggettivita' umana. L'"altra meta' del cielo", anzi l'altra meta' della terra, a
partire dall'eta' neolitica, e' stata mantenuta con violenza al di fuori degli spazi in cui si crea la
storia: l'uomo del neolitico e' un uomo dimidiato e proprio per questo violento. L'emancipazione
femminile e' potenzialmente un altro capitolo della cultura della pace.
- Ma il fenomeno forse piu' rilevante, che da' conforto alla fede nell'uomo, e' la nuova dialettica che
si e' aperta all'interno delle grandi religioni. Possiamo limitarci, e non solo per brevita', al
cristianesimo. La soglia atomica, come si e' detto, in quanto crinale tra morte e vita del genere
umano, e' di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se l'alternativa della vita trionfera', essa non
potra' andare che nel senso di una composizione unitaria del genere umano. Il che significa che tutto
cio' che e' nato e cresciuto con i segni del "particolare" potra' sopravvivere solo se sapra' accettare le
nuove misure di universalita' concreta. Alla pari delle altre religioni, il cristianesimo non potra' non
apparire (e gia' appare) come il patrimonio di una porzione del genere umano. La sua storia, nel
bene e nel male, si confonde con quella dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce come un
pungolo sulla forma storica del cristianesimo, un pungolo che sgretola quel che e' connesso alla
relativita' storico-geografica e, nello stesso tempo, fa emergere il suo nucleo profetico. La profezia
cristiana ha questo di proprio e forse di esclusivo: che e' una profezia messianica, investe cioe' la
totalita' delle speranze degne dell'uomo, prima fra tutte la speranza della pace. In questo senso il
cristianesimo trabocca dai confini religiosi e si commisura, senza sforzi, sulla qualita' laica della
storia.
- Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre confessioni che fanno capo al
Consiglio Ecumenico delle Chiese sta spostando l'asse della propria vita interna o della propria
missione storica dagli spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo decisivo la giustizia
e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo e' gia' in atto. Morendo alle sue terribili stagioni di
complicita' con le guerre, il cristianesimo di ogni confessione mette in evidenza la sua indole di
fondo, che e' la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono che la transizione alla civilta'
della pace e' come un appuntamento storico che Dio ha loro fissato e su cui le giudichera'. Una
chiesa veramente evangelica e' come un'obiezione di coscienza piantata da Dio nella carne viva del
mondo. Ebbene, in questi ultimi tempi le chiese, perfino nei loro vertici istituzionali, che sono piu'
tardi a muoversi e che d'altronde hanno ancora un pesante conto da pagare alla civilta' della pace, si
sentono sospinte sulle trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi il loro no. Secondo alcuni,
e' gia' matura la stagione per un Concilio ecumenico in cui le chiese si ritrovino non per lanciare un
nuovo messaggio al mondo ma per assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze, la
responsabilita' della sopravvivenza del mondo e, in positivo, dell'avvento della civilta' della pace.
- Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando un'indagine commissionata
dall'Unesco, riconosceva che la crisi della scuola era un dato evidente in ogni parte del mondo e
osava affermare che, alla radice di questa crisi, c'era una "mutazione antropologica". Gli autori di
questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si tratti. La scuola, nelle forme e nei
modi che le sono stati assegnati dalla rivoluzione borghese e che nei paesi dell'Est europeo
appaiono aggravati, e' sempre stata l'apparato ideologico destinato a procurare consensi al potere
costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le classi dominanti, per definizione, guardano al
mondo con l'occhio del dominio e cioe' l'occhio che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il
proprio particolare per l'universale, il proprio calcolo per la Ragione, la propria espansione
colonialistica per la diffusione della civilta'. Ma l'occhio fiero del padrone ha bisogno dell'occhio
umile dello schiavo: oggi, finalmente, l'occhio umile non c'e' piu'. Le barriere, almeno dal punto di
vista conoscitivo, sono cadute e nessuna cultura puo' ormai provocare un'eco veramente umana
nelle coscienze se non e' cultura planetaria, e cioe' se il suo punto di vista non e' il punto di vista del
pianeta divenuto l'indivisibile citta' dell'uomo. Per diventare planetaria la cultura deve essere cultura
di pace.
La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base della crisi della scuola e'
proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola e' ancora un organo di diffusione della cultura
padronale che e', per forza di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale con i processi di
crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno semplici palliativi finche'
non scenderanno a questa profondita', per mettere in questione il presupposto antropologico che ha
fatto da dogma latente della cultura occidentale. Tocca alla scuola provvedere alla riforma di se
stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi propri, ai processi di cambiamento che preparano
e prefigurano la cultura della pace.
*
Uno dei modi con cui la scuola puo' inserirsi, con efficacia decisiva, in quei processi e' la
costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria storica diversa da quella codificata nel sapere
dominante. Ed e' un compito che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario e filosofico
che abbiamo ricevuto in eredita'. Tutto cio' che, in questo patrimonio, era riconducibile alla sfera
dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti critici, puntualmente sigillato nella dimenticanza
o relegato ai margini come ingenuo o poeticamente evasivo. E' razionale solo cio' che e' reale: ecco
il dogma implicito o esplicito che ha presieduto alla codificazione del sapere. La parola pace, nei
libri di scuola, serve normalmente per indicare i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco
piu' che interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civilta'. La "verita' effettuale" e'
diversa. E' diversa non solo nell'animo e nel costume dei popoli, che negli annali ufficiali sembrano
piuttosto oggetti che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a cui e' solito
rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno.
E' appunto di questo secondo aspetto della verita' effettuale che la presente rassegna intende offrire
una larga documentazione critica. Il panorama che essa offre e' di necessita' limitato, nel tempo e
nello spazio. Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende origine la politica degli Stati e
congiuntamente si trasforma, anche dal punto di vista tecnico, l'"istituzione guerra". Nello spazio: la
rassegna resta, salvo qualche sortita, nei confini del pensiero occidentale anche perche' e' in
quest'area che la civilta' della guerra ha prodotto le sue grandezze e oggi il suo dilemma mortale.
Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in queste pagine sempre in un
rapporto dialettico con la realta' della guerra e appare sempre, alla prova dei fatti, perdente. Solo
oggi, nell'era di Hiroshima, le due logiche, quella dell'ideale morale e quella della necessita'
realistica, arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma di prospettive morali e politiche.
Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a questo singolare evento
della coincidenza tra utopia e realismo, la loro posizione, anzi hanno voluto apertamente dichiararla
fin da questa lunga premessa. E tuttavia essi sono convinti di non aver fatto forza al senso oggettivo
delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realta' su cui le coscienze possono elaborare, in
modo autonomo, le proprie scelte. Lo strumento che essi hanno preparato intende provocare e
soccorrere, all'interno della scuola, un dibattito che e sicuramente il piu' alto, il piu' universale e, sia
permesso di dire, il piu' religioso tra quelli che fanno ancora della scuola l'occasione piu' importante
per la formazione dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci aiutino a
colmare lacune e a rettificare giudizi per rendere il nostro lavoro sempre piu' adatto ad illuminare e
ad alimentare, dentro e fuori della scuola, la cultura della pace da cui dipende il destino della Terra.