About Rete Ambientalista Al
Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza
Il senno del 26 aprile può essere più utile di quello del 25. Si è vista una splendida manifestazione
di popolo a Milano (nella foto Ansa di apertura, di Mourad Balti Touati) con una decina di
nordafricani che si sono presi i titoli insultando gli ebrei. Non si è visto il semplice gesto che
sarebbe bastato, ha scritto Aldo Cazzullo nell’editoriale di oggi. Bastato a rendere la festa della
Liberazione dal fascismo meno, o non più, «divisiva», come ama dire chi non l’ha mai amata e
continua a non amarla anche dalle posizioni di massimo potere.
Il senno del 26 aprile porta allora a cercare di ricordare cosa sia stata questa festa nella nostra
storia. Ieri sera tardi, a cavallo tra 25 e 26, ne ha parlato a «Tra poco in edicola» su Radio1
Giovanni Orsina, l’intellettuale italiano più capace di decifrare l’evoluzione della destra senza le
tossine del pregiudizio e della spocchia che si addebitano indistintamente all’intellighenzia di
sinistra. Lo storico della Luiss ha detto in sostanza che la festa è stata sempre tiepida, fin dal
dopoguerra e dagli anni ‘50, perché al potere a trazione democristiana non conveniva riscaldarla:
«In realtà è una specie di gioco degli specchi. In che senso? Nel senso che questa festa, nel corso
degli anni, è una festa che sempre più è stata “richiamata” da sinistra. Avveniva addirittura negli
anni ‘50. Già allora la parte moderata del Paese, parliamo ovviamente di antifascisti ed eredi
dell’antifascismo, parliamo dei liberali, dei democristiani, cercavano di non enfatizzare troppo
questa ricorrenza, dandole un celebrazione molto liturgica, molto istituzionale ma cercando di non
attribuirle un valore politico troppo forte. Perché? Naturalmente perché negli anni ‘50 festeggiare
la Liberazione significava di fatto ricordare che in quella storia avevano avuto un ruolo
particolarmente importante i comunisti e anche i socialisti, perché stiamo parlando degli anni ‘50 e
quindi ancora di una fase nella quale il Partito socialista era legato al Partito comunista. La
memoria dell’antifascismo e della Resistenza è stata subito colorata dalla Guerra Fredda. Con una
sinistra che cercava di utilizzarla per ri-legittimarsi, e quindi far dimenticare la delegittimazione
proveniente dalla Guerra Fredda, e una destra e un centro anche moderato che invece cercavano
di evitare di enfatizzarla per non dare questo strumento alla sinistra socialcomunista e poi
comunista. Lì qualcosa si è storto e da allora non siamo più riusciti a raddrizzarlo».
Dopodiché, ha concluso lo studioso, «sono entrati in campo quelli che provengono dalla tradizione
degli sconfitti e a quel punto questa ricorrenza ulteriormente è diventata da sinistra un’arma di
scontro politico e di delegittimazione politica, mentre da destra la risposta è stata: ma se voi
continuate a usarla così contro di noi, allora noi non possiamo riconoscerla. Io non voglio dire chi
abbia torto e chi abbia ragione, difficile sapere chi ha cominciato per primo. Quello che è evidente
è che tutto questo aveva senso in epoca di Guerra Fredda. Che è finita nel 1989. Sono passati 35
anni e allora non si riesce a capire che senso abbia oggi quel gioco degli specchi che aveva senso
allora».
Orsina si chiama dunque fuori, evita in teoria di attribuire la responsabilità primaria del «gioco» a
una delle parti, ma nell’intervista radiofonica afferma poi che sono state le sinistre — prima con la
denuncia del «fascismo mediatico» di Berlusconi e poi con l’allarme contro il «fascismo di ritorno»
di Meloni — a usare l’antifascismo come arma elettorale. Arma peraltro spuntata, visto che né
allora né due anni fa è servita a evitare la vittoria delle destre.
Orsina, come sanno i lettori, è da sempre un punto di riferimento di questa newsletter, eppure in
questo caso la sua rievocazione del 25 aprile e dei suoi pluridecennali dintorni e contorni storici
appare un po’ svogliata, come se la «liturgia» delle polemiche lo avesse ormai annoiato quanto (ha
rivelato negli ultimi anni) il catastrofismo climatico. Altre ricostruzioni sono più chirurgiche nella
spiegazione di cosa sia successo davvero alla fine della Guerra Fredda, con il disfacimento
dell’Unione sovietica prima e lo scioglimento del Pci poi e dunque la morte evidente, non
apparente, del «pericolo comunista» per la democrazia. Un pericolo che d’altronde era stato
smaltito da un po’, avendo i comunisti contribuito a costruire la democrazia e a difenderla
dall’assalto del terrorismo rosso. E così stemperando negli anni la loro doppiezza filosovietica in
una prassi democratica di forma e sostanza, dall’alfabetizzazione di milioni di operai al
buongoverno locale fino alle pratiche consociative che — deprecabili dal punto di vista delle
finanze pubbliche — certo non comportavano tendenze eversive di alcun tipo rispetto al potere
della Dc.
Per questo, a proposito della svolta del 1994 e del perché lo scontro sul 25 aprile non si sia
concluso ma sia semmai riesploso con la fine della Guerra Fredda, appare più convincente la
ricostruzione proposta nei giorni scorsi da Aldo Cazzullo nella risposta a un lettore:
«Fino al 1994, il 25 aprile non era un problema. Per la grande maggioranza degli italiani era l’inizio
di un ponte. Era un giorno di lutto solo per i neofascisti. Ma il partito del centrodestra italiano, la
Dc, non aveva problemi a festeggiarlo. I democristiani erano antifascisti. Alcide De Gasperi sotto il
fascismo era stato in galera, don Luigi Sturzo in esilio, don Giovanni Minzoni era stato ammazzato
a bastonate. Durante la Resistenza i fascisti avevano ucciso 190 tra sacerdoti e monaci, i nazisti
centoventi. Alcuni tra i capi della Dc erano stati capi partigiani: Paolo Emilio Taviani, “Pittaluga”,
ministro dell’Interno; Giovanni Marcora, “Albertino”, ministro dell’Agricoltura; Enrico Mattei,
“Monti”, fondatore dell’Eni. La Resistenza bianca aveva avuto i suoi martiri, giovani ufficiali
cattolici, medaglie d’oro al valor militare, che all’evidenza i nostri ministri anti-antifascisti non
hanno mai sentito nominare, da Ignazio Vian torturato e impiccato ad Alfredo Di Dio caduto in
combattimento. Più in generale, c’erano nella Resistenza molti uomini di destra, monarchici,
liberali, conservatori, carabinieri, militari. Del resto erano uomini di destra i grandi avversari del
nazismo, Churchill e De Gaulle. Dal 1994 in poi, il 25 aprile è tornato a dividere, per il semplice
fatto che la destra ha sempre rifiutato di riconoscersi in un patrimonio di valori comuni. Ci provò
Fini, senza grandi risultati».
Da questa analisi si può dedurre dunque che la riesumazione della dialettica fascismo-antifascismo
sia stata opera di Berlusconi: risuscitarla conveniva più a lui, che aveva bisogno di evocare la
sussistenza del pericolo comunista — in ciò accostumato peraltro da anni di intesa con Craxi — e al
tempo stesso ridimensionare le responsabilità storiche del fascismo, perché nel nuovo schema
bipolare ogni residuato post-fascista era un alleato da cooptare (Fini fu il primo) o un voto da
rastrellare. Conveniva, lo schema, molto meno ai post-comunisti, avviati al compito ciclopico di
costruire un nuovo campo progressista col cattolicesimo democratico e dunque interessati a
seppellire per sempre il muro contro muro ideologico. Senonché, quando il muro fu alzato da
Berlusconi, la sua identificazione col «fascismo mediatico» o l’ur-fascismo (il fascismo eterno) di
Umberto Eco scattò da sinistra senza esitazioni e ripensamenti. Con successi importanti (Prodi,
due volte) ma effimeri.
L’atmosfera e lo scontro di quegli anni sono ricordati con efficacia da Luca Baldissara, il cui saggio
25 aprile — La storia politica e civile di un giorno lungo ottant’anni è stato appena pubblicato dal
Mulino. Scrive lo storico dell’Università di Bologna:
«Queste due Italie si sarebbero confrontate per oltre un decennio, dal 1994 al 2006, e
inerzialmente per un poco ancora, trovando proprio nel 25 aprile un habitat favorevole allo
scontro finalizzato alla delegittimazione dell’avversario: da una parte, il berlusconismo assimilava il
senso comune di destra – che si ostinava a vedere in quella data una festa volutamente divisiva,
celebrante la superbia dei vincitori sui vinti, dei “comunisti” (pur in assenza di comunismo) sui
democratici “liberali” – amplificandolo e restituendolo in forma tale da favorire la radicalizzazione
anche dei settori moderati e benpensanti del centro-destra, al contrario di quanto aveva invece
garantito in precedenza la Dc; dall’altra, il centro-sinistra evocava l’antifascismo storico come
richiamo fondativo e identitario per contrastare la nuova destra e difendere la Costituzione, come
deposito di valori evergreen per affrontare i problemi del presente, consentendo la difficile
convivenza e il connubio politico-culturale in forma di difesa delle garanzie democratico-
costituzionali tra componenti della sinistra storica, del solidarismo democratico di impronta
cattolica, del generico progressismo antifascista quale rivoluzionaria ideologia anticonformista».
Per anni Berlusconi schivò diverse volte le celebrazioni del 25 aprile, con qualche intermittente
ridimensionamento della portata totalitaria del fascismo — «il confino era una vacanza», gli
scappò in un’intervista — e l’insistente rifiuto di condannare il fascismo se non con una
concomitante condanna del comunismo, da ribadire anche nel celebrare la Resistenza, ovvero una
pagina gloriosa in cui il contributo dei comunisti era stato rimarchevole.
Si arrivò così al discorso di Onna del 2009, in cui Berlusconi, scrive Baldissara,
«mostrava di avere trovato una efficace sintesi, un riuscito dosaggio degli argomenti e degli
stereotipi sino ad allora emersi. Rendendo genericamente omaggio ad alcuni elementi qualificanti
l’antifascismo istituzionale, in tale sintesi avrebbe nella realtà consolidato i fattori portanti della
nuova versione antitotalitaria del 25 aprile che veniva avanti da un ventennio. […] Si trattava di
una sistemazione nella quale il fascismo scompariva come fenomeno storico reale, rimanendo solo
come manifestazione di totalitarismo, quasi un meta-totalitarismo, cui accorpare il comunismo,
pure non evocato esplicitamente. Mentre la Resistenza è ricondotta nella sua essenza alla lotta
per la libertà e per la patria, come già nei democristiani degli anni Cinquanta».
Sulla falsariga di quelle parole berlusconiane, Giorgia Meloni ha provato un’analoga
«sistemazione» con la lettera pubblicata un anno fa dal Corriere, in occasione del primo 25 aprile
vissuto dalla leader di Fratelli d’Italia da presidente del Consiglio.
Meloni si augurò che le sue «riflessioni» potessero «contribuire a fare di questa ricorrenza un
momento di ritrovata concordia nazionale nel quale la celebrazione della nostra ritrovata libertà ci
aiuti a comprendere e rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di
democrazia», e fu importante perché si veniva da continue provocazioni anti-antifasciste da parte
del presidente del Senato La Russa;
affermò che «da molti anni, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano
la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del
fascismo», e fu importante perché evitò un’espressione apparentemente più semplice —
«incompatibilità col fascismo» — che sarebbe suonata paradossalmente più forte: una presa di
distanza totale anche sul piano storico, e non solo (com’è ovvio) rispetto al presente;
aggiunse che «il 25 Aprile 1945 segna evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della
Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti
ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la
nostra comunità nazionale. Purtroppo, la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa
guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise
persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche
diversi mesi dopo la fine del conflitto. Così come è doveroso ricordare che, mentre quel giorno
milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali
di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle
loro terre. Ma il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione
dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione
repubblicana».
Il passaggio sul fascismo che «aveva conculcato i valori democratici» è significativo, ma la premier
preferì soffermarsi in modo più dettagliato sulla guerra civile, la «spirale d’odio», le «esecuzioni
sommarie», la tragedia degli italiani in fuga dalle loro terre. Della Resistenza sottolineò, dunque,
gli aspetti più divisivi, non la sua necessità rispetto a un regime criminale. Un elenco dei mali del
fascismo sarebbe stato molto più lungo, ma anche questa volta Meloni citò solo «le persecuzioni
anti ebraiche».
Poi la premier citò la partigiana Paola Del Din, da lei apprezzata perché non era comunista e
perché, anziché partigiana, preferiva dirsi «patriota». La sottigliezza semantica meloniana non è
mai casuale: «partigiani» è troppo identificato coi comunisti e indigeribile per la destra; «patrioti»
è più trasversale, e va esteso eccome — nella visione della premier — a chi stava dall’altra parte.
Nella nostra newsletter Prima Ora di quel 25 aprile 2023, ospitammo un intervento di Antonio
Scurati. Reduce dal successo del suo straordinario romanzo M, ma non ancora assurto a simbolo
dell’antimelonismo. Il testo dello scrittore era anzi pacato, e sembrava più rivolto alla sinistra, alla
sua supposta, perenne strumentalizzazione del 25 aprile:
«Io credo che, per poter divenire eredi dell’antifascismo novecentesco, si debba rinnovarlo. Oggi è
finalmente possibile un antifascismo civico, non più ideologico, un antifascismo che non imponga
ad alcuni lo schieramento sotto bandiere ben tinte ma a tutti di prendere posizione sotto la
bandiera della democrazia. La democrazia di tradizione europea, liberale, piena e compiuta. Non
ne esiste un’altra. Oggi, consumate le sanguinose diatribe politico-ideologiche novecentesche, è
finalmente possibile un antifascismo di tutti, di tutti i sinceri democratici».
Toni, come si vede, del tutto compatibili, se non affini alle classiche polemiche
sull’«appropriazione» del 25 aprile da parte della sinistra, e molti diversi da quelli dell’ormai
celebre testo censurato un anno dopo dalla Rai, e da lui riletto ieri in piazza Duomo, in cui Scurati
ha attaccato frontalmente la presidente del Consiglio. Il passaggio chiave è questo:
«Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due
strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha
indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale,
la presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è
pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha
preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei)
senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi
compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale
della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo”
in occasione del 25 aprile 2023)».
Concludeva Scurati: «Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione
dal nazifascismo. La parola che la presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciarepalpiterà ancora
sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del
fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana».
Ma perché Meloni non può dirsi antifascista?Perché non potè farlo nemmeno quando, esaltando
una partigiana non comunista come Paola Del Din, riconobbe implicitamente che l’antifascismo
non si può identificare col comunismo? E perché non ha potuto farlo nemmeno in questi giorni,
dopo un anno in cui la sua reputazione internazionale si è assolutamente rafforzata e nei suoi
confronti c’è molto più corteggiamento che diffidenza?
Perché, come si scrisse in quella stessa newsletter, dirsi antifascisti vorrebbe dire uccidere il padre:
non solo e non tanto Mussolini, ormai, ma i tanti che dopo la guerra si riunirono nell’Msi. Il motto
di Giorgio Almirante — «non restaurare, non rinnegare» — resta attualissimo per Fratelli d’Italia,
sorta di «Rifondazione missina» nata 12 anni fa con tanto di simbolo continuista, la fiamma
tricolore, che resiste a ogni rimozione fisica e perpetua quelle storiche. Non a caso, nella lettera al
Corriere, Meloni rivendicò il ruolo di chi «dal processo costituente era rimasto escluso per ovvie
ragioni storiche» ma poi «si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica
parlamentare, dando forma alla destra democratica».
Dunque: fedeltà a quella tradizione, che non ha inteso «restaurare» il fascismo (salvo qualche
intermittente rigurgito) ma non l’ha mai «rinnegato», non ha mai ammesso la sua vergogna e la
sua violenza intrinseca, non ha mai elencato uno per uno i suoi misfatti, non ha mai sognato
nemmeno per un attimo di dirsi «antifascista». E dunque non ha mai ammesso minimamente, che
la Resistenza ebbe le sue pagine nere, ma rappresentò la parte giusta della storia. Per i meloniani,
sotto questo aspetto, la continuità con i padri missini è assoluta: «l’incompatibilità con qualsiasi
nostalgia del fascismo» è il moderno «non restaurare», l’omissione di un’analisi completa del male
assoluto del fascismo, con l’elenco al contrario puntiglioso delle malefatte altrui — e soprattutto il
rifiuto di dirsi antifascisti — sono il moderno «non rinnegare».
La spiegazione più probabile per cui il mondo meloniano e la stessa leader non possono dire che il
fascismo fu nella sua interezza — e non solo per la sua corresponsabilità nell’Olocausto degli ebrei
— un male, dunque davvero un male assoluto; non possono cioè dire semplicemente che il
fascismo è la pagina più orrenda della storia italiana, quella di cui dobbiamo vergognarci di più; e
che Mussolini è il peggior italiano di sempre; ecco, la spiegazione è molto semplice: perché non lo
pensano. E siccome non lo pensano e ora sono al potere, c’è da aspettarsi che — nel nome dei
padri e dei camerati del passato — non rinuncino a cercare di convincerne la maggioranza degli
italiani, che pure li votano per altri motivi. È la battaglia per la nuova egemonia culturale che,
attorno al 25 aprile e a molti altri simboli, si consumerà nei prossimi anni. E forse, ci consumerà.
GIANLUCA MERCURI, editorialista – Corriere della Sera
di popolo a Milano (nella foto Ansa di apertura, di Mourad Balti Touati) con una decina di
nordafricani che si sono presi i titoli insultando gli ebrei. Non si è visto il semplice gesto che
sarebbe bastato, ha scritto Aldo Cazzullo nell’editoriale di oggi. Bastato a rendere la festa della
Liberazione dal fascismo meno, o non più, «divisiva», come ama dire chi non l’ha mai amata e
continua a non amarla anche dalle posizioni di massimo potere.
Il senno del 26 aprile porta allora a cercare di ricordare cosa sia stata questa festa nella nostra
storia. Ieri sera tardi, a cavallo tra 25 e 26, ne ha parlato a «Tra poco in edicola» su Radio1
Giovanni Orsina, l’intellettuale italiano più capace di decifrare l’evoluzione della destra senza le
tossine del pregiudizio e della spocchia che si addebitano indistintamente all’intellighenzia di
sinistra. Lo storico della Luiss ha detto in sostanza che la festa è stata sempre tiepida, fin dal
dopoguerra e dagli anni ‘50, perché al potere a trazione democristiana non conveniva riscaldarla:
«In realtà è una specie di gioco degli specchi. In che senso? Nel senso che questa festa, nel corso
degli anni, è una festa che sempre più è stata “richiamata” da sinistra. Avveniva addirittura negli
anni ‘50. Già allora la parte moderata del Paese, parliamo ovviamente di antifascisti ed eredi
dell’antifascismo, parliamo dei liberali, dei democristiani, cercavano di non enfatizzare troppo
questa ricorrenza, dandole un celebrazione molto liturgica, molto istituzionale ma cercando di non
attribuirle un valore politico troppo forte. Perché? Naturalmente perché negli anni ‘50 festeggiare
la Liberazione significava di fatto ricordare che in quella storia avevano avuto un ruolo
particolarmente importante i comunisti e anche i socialisti, perché stiamo parlando degli anni ‘50 e
quindi ancora di una fase nella quale il Partito socialista era legato al Partito comunista. La
memoria dell’antifascismo e della Resistenza è stata subito colorata dalla Guerra Fredda. Con una
sinistra che cercava di utilizzarla per ri-legittimarsi, e quindi far dimenticare la delegittimazione
proveniente dalla Guerra Fredda, e una destra e un centro anche moderato che invece cercavano
di evitare di enfatizzarla per non dare questo strumento alla sinistra socialcomunista e poi
comunista. Lì qualcosa si è storto e da allora non siamo più riusciti a raddrizzarlo».
Dopodiché, ha concluso lo studioso, «sono entrati in campo quelli che provengono dalla tradizione
degli sconfitti e a quel punto questa ricorrenza ulteriormente è diventata da sinistra un’arma di
scontro politico e di delegittimazione politica, mentre da destra la risposta è stata: ma se voi
continuate a usarla così contro di noi, allora noi non possiamo riconoscerla. Io non voglio dire chi
abbia torto e chi abbia ragione, difficile sapere chi ha cominciato per primo. Quello che è evidente
è che tutto questo aveva senso in epoca di Guerra Fredda. Che è finita nel 1989. Sono passati 35
anni e allora non si riesce a capire che senso abbia oggi quel gioco degli specchi che aveva senso
allora».
Orsina si chiama dunque fuori, evita in teoria di attribuire la responsabilità primaria del «gioco» a
una delle parti, ma nell’intervista radiofonica afferma poi che sono state le sinistre — prima con la
denuncia del «fascismo mediatico» di Berlusconi e poi con l’allarme contro il «fascismo di ritorno»
di Meloni — a usare l’antifascismo come arma elettorale. Arma peraltro spuntata, visto che né
allora né due anni fa è servita a evitare la vittoria delle destre.
Orsina, come sanno i lettori, è da sempre un punto di riferimento di questa newsletter, eppure in
questo caso la sua rievocazione del 25 aprile e dei suoi pluridecennali dintorni e contorni storici
appare un po’ svogliata, come se la «liturgia» delle polemiche lo avesse ormai annoiato quanto (ha
rivelato negli ultimi anni) il catastrofismo climatico. Altre ricostruzioni sono più chirurgiche nella
spiegazione di cosa sia successo davvero alla fine della Guerra Fredda, con il disfacimento
dell’Unione sovietica prima e lo scioglimento del Pci poi e dunque la morte evidente, non
apparente, del «pericolo comunista» per la democrazia. Un pericolo che d’altronde era stato
smaltito da un po’, avendo i comunisti contribuito a costruire la democrazia e a difenderla
dall’assalto del terrorismo rosso. E così stemperando negli anni la loro doppiezza filosovietica in
una prassi democratica di forma e sostanza, dall’alfabetizzazione di milioni di operai al
buongoverno locale fino alle pratiche consociative che — deprecabili dal punto di vista delle
finanze pubbliche — certo non comportavano tendenze eversive di alcun tipo rispetto al potere
della Dc.
Per questo, a proposito della svolta del 1994 e del perché lo scontro sul 25 aprile non si sia
concluso ma sia semmai riesploso con la fine della Guerra Fredda, appare più convincente la
ricostruzione proposta nei giorni scorsi da Aldo Cazzullo nella risposta a un lettore:
«Fino al 1994, il 25 aprile non era un problema. Per la grande maggioranza degli italiani era l’inizio
di un ponte. Era un giorno di lutto solo per i neofascisti. Ma il partito del centrodestra italiano, la
Dc, non aveva problemi a festeggiarlo. I democristiani erano antifascisti. Alcide De Gasperi sotto il
fascismo era stato in galera, don Luigi Sturzo in esilio, don Giovanni Minzoni era stato ammazzato
a bastonate. Durante la Resistenza i fascisti avevano ucciso 190 tra sacerdoti e monaci, i nazisti
centoventi. Alcuni tra i capi della Dc erano stati capi partigiani: Paolo Emilio Taviani, “Pittaluga”,
ministro dell’Interno; Giovanni Marcora, “Albertino”, ministro dell’Agricoltura; Enrico Mattei,
“Monti”, fondatore dell’Eni. La Resistenza bianca aveva avuto i suoi martiri, giovani ufficiali
cattolici, medaglie d’oro al valor militare, che all’evidenza i nostri ministri anti-antifascisti non
hanno mai sentito nominare, da Ignazio Vian torturato e impiccato ad Alfredo Di Dio caduto in
combattimento. Più in generale, c’erano nella Resistenza molti uomini di destra, monarchici,
liberali, conservatori, carabinieri, militari. Del resto erano uomini di destra i grandi avversari del
nazismo, Churchill e De Gaulle. Dal 1994 in poi, il 25 aprile è tornato a dividere, per il semplice
fatto che la destra ha sempre rifiutato di riconoscersi in un patrimonio di valori comuni. Ci provò
Fini, senza grandi risultati».
Da questa analisi si può dedurre dunque che la riesumazione della dialettica fascismo-antifascismo
sia stata opera di Berlusconi: risuscitarla conveniva più a lui, che aveva bisogno di evocare la
sussistenza del pericolo comunista — in ciò accostumato peraltro da anni di intesa con Craxi — e al
tempo stesso ridimensionare le responsabilità storiche del fascismo, perché nel nuovo schema
bipolare ogni residuato post-fascista era un alleato da cooptare (Fini fu il primo) o un voto da
rastrellare. Conveniva, lo schema, molto meno ai post-comunisti, avviati al compito ciclopico di
costruire un nuovo campo progressista col cattolicesimo democratico e dunque interessati a
seppellire per sempre il muro contro muro ideologico. Senonché, quando il muro fu alzato da
Berlusconi, la sua identificazione col «fascismo mediatico» o l’ur-fascismo (il fascismo eterno) di
Umberto Eco scattò da sinistra senza esitazioni e ripensamenti. Con successi importanti (Prodi,
due volte) ma effimeri.
L’atmosfera e lo scontro di quegli anni sono ricordati con efficacia da Luca Baldissara, il cui saggio
25 aprile — La storia politica e civile di un giorno lungo ottant’anni è stato appena pubblicato dal
Mulino. Scrive lo storico dell’Università di Bologna:
«Queste due Italie si sarebbero confrontate per oltre un decennio, dal 1994 al 2006, e
inerzialmente per un poco ancora, trovando proprio nel 25 aprile un habitat favorevole allo
scontro finalizzato alla delegittimazione dell’avversario: da una parte, il berlusconismo assimilava il
senso comune di destra – che si ostinava a vedere in quella data una festa volutamente divisiva,
celebrante la superbia dei vincitori sui vinti, dei “comunisti” (pur in assenza di comunismo) sui
democratici “liberali” – amplificandolo e restituendolo in forma tale da favorire la radicalizzazione
anche dei settori moderati e benpensanti del centro-destra, al contrario di quanto aveva invece
garantito in precedenza la Dc; dall’altra, il centro-sinistra evocava l’antifascismo storico come
richiamo fondativo e identitario per contrastare la nuova destra e difendere la Costituzione, come
deposito di valori evergreen per affrontare i problemi del presente, consentendo la difficile
convivenza e il connubio politico-culturale in forma di difesa delle garanzie democratico-
costituzionali tra componenti della sinistra storica, del solidarismo democratico di impronta
cattolica, del generico progressismo antifascista quale rivoluzionaria ideologia anticonformista».
Per anni Berlusconi schivò diverse volte le celebrazioni del 25 aprile, con qualche intermittente
ridimensionamento della portata totalitaria del fascismo — «il confino era una vacanza», gli
scappò in un’intervista — e l’insistente rifiuto di condannare il fascismo se non con una
concomitante condanna del comunismo, da ribadire anche nel celebrare la Resistenza, ovvero una
pagina gloriosa in cui il contributo dei comunisti era stato rimarchevole.
Si arrivò così al discorso di Onna del 2009, in cui Berlusconi, scrive Baldissara,
«mostrava di avere trovato una efficace sintesi, un riuscito dosaggio degli argomenti e degli
stereotipi sino ad allora emersi. Rendendo genericamente omaggio ad alcuni elementi qualificanti
l’antifascismo istituzionale, in tale sintesi avrebbe nella realtà consolidato i fattori portanti della
nuova versione antitotalitaria del 25 aprile che veniva avanti da un ventennio. […] Si trattava di
una sistemazione nella quale il fascismo scompariva come fenomeno storico reale, rimanendo solo
come manifestazione di totalitarismo, quasi un meta-totalitarismo, cui accorpare il comunismo,
pure non evocato esplicitamente. Mentre la Resistenza è ricondotta nella sua essenza alla lotta
per la libertà e per la patria, come già nei democristiani degli anni Cinquanta».
Sulla falsariga di quelle parole berlusconiane, Giorgia Meloni ha provato un’analoga
«sistemazione» con la lettera pubblicata un anno fa dal Corriere, in occasione del primo 25 aprile
vissuto dalla leader di Fratelli d’Italia da presidente del Consiglio.
Meloni si augurò che le sue «riflessioni» potessero «contribuire a fare di questa ricorrenza un
momento di ritrovata concordia nazionale nel quale la celebrazione della nostra ritrovata libertà ci
aiuti a comprendere e rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di
democrazia», e fu importante perché si veniva da continue provocazioni anti-antifasciste da parte
del presidente del Senato La Russa;
affermò che «da molti anni, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano
la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del
fascismo», e fu importante perché evitò un’espressione apparentemente più semplice —
«incompatibilità col fascismo» — che sarebbe suonata paradossalmente più forte: una presa di
distanza totale anche sul piano storico, e non solo (com’è ovvio) rispetto al presente;
aggiunse che «il 25 Aprile 1945 segna evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della
Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti
ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la
nostra comunità nazionale. Purtroppo, la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa
guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise
persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche
diversi mesi dopo la fine del conflitto. Così come è doveroso ricordare che, mentre quel giorno
milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali
di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle
loro terre. Ma il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione
dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione
repubblicana».
Il passaggio sul fascismo che «aveva conculcato i valori democratici» è significativo, ma la premier
preferì soffermarsi in modo più dettagliato sulla guerra civile, la «spirale d’odio», le «esecuzioni
sommarie», la tragedia degli italiani in fuga dalle loro terre. Della Resistenza sottolineò, dunque,
gli aspetti più divisivi, non la sua necessità rispetto a un regime criminale. Un elenco dei mali del
fascismo sarebbe stato molto più lungo, ma anche questa volta Meloni citò solo «le persecuzioni
anti ebraiche».
Poi la premier citò la partigiana Paola Del Din, da lei apprezzata perché non era comunista e
perché, anziché partigiana, preferiva dirsi «patriota». La sottigliezza semantica meloniana non è
mai casuale: «partigiani» è troppo identificato coi comunisti e indigeribile per la destra; «patrioti»
è più trasversale, e va esteso eccome — nella visione della premier — a chi stava dall’altra parte.
Nella nostra newsletter Prima Ora di quel 25 aprile 2023, ospitammo un intervento di Antonio
Scurati. Reduce dal successo del suo straordinario romanzo M, ma non ancora assurto a simbolo
dell’antimelonismo. Il testo dello scrittore era anzi pacato, e sembrava più rivolto alla sinistra, alla
sua supposta, perenne strumentalizzazione del 25 aprile:
«Io credo che, per poter divenire eredi dell’antifascismo novecentesco, si debba rinnovarlo. Oggi è
finalmente possibile un antifascismo civico, non più ideologico, un antifascismo che non imponga
ad alcuni lo schieramento sotto bandiere ben tinte ma a tutti di prendere posizione sotto la
bandiera della democrazia. La democrazia di tradizione europea, liberale, piena e compiuta. Non
ne esiste un’altra. Oggi, consumate le sanguinose diatribe politico-ideologiche novecentesche, è
finalmente possibile un antifascismo di tutti, di tutti i sinceri democratici».
Toni, come si vede, del tutto compatibili, se non affini alle classiche polemiche
sull’«appropriazione» del 25 aprile da parte della sinistra, e molti diversi da quelli dell’ormai
celebre testo censurato un anno dopo dalla Rai, e da lui riletto ieri in piazza Duomo, in cui Scurati
ha attaccato frontalmente la presidente del Consiglio. Il passaggio chiave è questo:
«Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due
strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha
indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale,
la presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è
pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha
preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei)
senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi
compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale
della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo”
in occasione del 25 aprile 2023)».
Concludeva Scurati: «Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione
dal nazifascismo. La parola che la presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciarepalpiterà ancora
sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del
fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana».
Ma perché Meloni non può dirsi antifascista?Perché non potè farlo nemmeno quando, esaltando
una partigiana non comunista come Paola Del Din, riconobbe implicitamente che l’antifascismo
non si può identificare col comunismo? E perché non ha potuto farlo nemmeno in questi giorni,
dopo un anno in cui la sua reputazione internazionale si è assolutamente rafforzata e nei suoi
confronti c’è molto più corteggiamento che diffidenza?
Perché, come si scrisse in quella stessa newsletter, dirsi antifascisti vorrebbe dire uccidere il padre:
non solo e non tanto Mussolini, ormai, ma i tanti che dopo la guerra si riunirono nell’Msi. Il motto
di Giorgio Almirante — «non restaurare, non rinnegare» — resta attualissimo per Fratelli d’Italia,
sorta di «Rifondazione missina» nata 12 anni fa con tanto di simbolo continuista, la fiamma
tricolore, che resiste a ogni rimozione fisica e perpetua quelle storiche. Non a caso, nella lettera al
Corriere, Meloni rivendicò il ruolo di chi «dal processo costituente era rimasto escluso per ovvie
ragioni storiche» ma poi «si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica
parlamentare, dando forma alla destra democratica».
Dunque: fedeltà a quella tradizione, che non ha inteso «restaurare» il fascismo (salvo qualche
intermittente rigurgito) ma non l’ha mai «rinnegato», non ha mai ammesso la sua vergogna e la
sua violenza intrinseca, non ha mai elencato uno per uno i suoi misfatti, non ha mai sognato
nemmeno per un attimo di dirsi «antifascista». E dunque non ha mai ammesso minimamente, che
la Resistenza ebbe le sue pagine nere, ma rappresentò la parte giusta della storia. Per i meloniani,
sotto questo aspetto, la continuità con i padri missini è assoluta: «l’incompatibilità con qualsiasi
nostalgia del fascismo» è il moderno «non restaurare», l’omissione di un’analisi completa del male
assoluto del fascismo, con l’elenco al contrario puntiglioso delle malefatte altrui — e soprattutto il
rifiuto di dirsi antifascisti — sono il moderno «non rinnegare».
La spiegazione più probabile per cui il mondo meloniano e la stessa leader non possono dire che il
fascismo fu nella sua interezza — e non solo per la sua corresponsabilità nell’Olocausto degli ebrei
— un male, dunque davvero un male assoluto; non possono cioè dire semplicemente che il
fascismo è la pagina più orrenda della storia italiana, quella di cui dobbiamo vergognarci di più; e
che Mussolini è il peggior italiano di sempre; ecco, la spiegazione è molto semplice: perché non lo
pensano. E siccome non lo pensano e ora sono al potere, c’è da aspettarsi che — nel nome dei
padri e dei camerati del passato — non rinuncino a cercare di convincerne la maggioranza degli
italiani, che pure li votano per altri motivi. È la battaglia per la nuova egemonia culturale che,
attorno al 25 aprile e a molti altri simboli, si consumerà nei prossimi anni. E forse, ci consumerà.
GIANLUCA MERCURI, editorialista – Corriere della Sera