Il 12 maggio 1996

Il 12 maggio 1996, updated 8/27/24, 5:16 PM

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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza

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Il 12 maggio 1996, a un intervistatore televisivo che le chiedeva se mezzo milione di bambini morti
in Iraq fossero un prezzo che valeva la pena pagare, Madeleine Albright – ambasciatrice degli Stati
uniti all’Onu e segretaria di stato durante la guerra in Iraq – rispose: «È una scelta difficile ma
pensiamo che fosse un prezzo che valeva la pena».

Il 10 agosto scorso, Kamala Harris – prossima, speriamo, presidente degli Stati uniti – ha detto che
i civili uccisi a Gaza sono «far too many», davvero troppi. In modo più confuso e ambiguo, anche il
presidente uscente Joe Biden ha detto la stessa cosa nel suo discorso alla convention democratica
a Chicago.

RICONOSCIAMOLO: ci vuole del coraggio, con l’aria che tira, a suggerire che possa esistere un
limite a quello che lo stato di Israele ha diritto di fare in qualunque momento e in qualunque parte
del globo. Però forse, visto che ci sono, Harris e Biden potrebbero fare un passo avanti e, sulla scia
di Madeleine Albright, chiarire: esattamente a che punto diventano «troppe» le vittime civili?
Quale sarebbe un numero non eccessivo di persone ammazzate – ventimila, diecimila,
cinquemila…?

Quanti morti ci vogliono per disturbare la nostra coscienza democratica? Qual è la soglia statistica
oltre la quale le persone smettono di essere umane e diventano numeri? Qual è la soglia statistica
oltre la quale i «danni collaterali» diventano crimini?

Riconoscendo che le cifre delle vittime fornite dal ministero della sanità di Gaza sono
«generalmente accurate», un portavoce dell’esercito israeliano spiegava che però almeno 12mila
erano combattenti terroristi (cito da Times of Israel). Ora, non so se dodicimila combattenti uccisi
sono «troppi»; ma quello che colpisce è che le fonti israeliane dichiarano con orgoglio di avere
ucciso anche almeno 25mila non combattenti. Dopo due mesi di guerra, una fonte militare
israeliana citata dalla Cnn dichiarava che due civili uccisi per ogni combattente è una quota
«tremendamente positiva». Ok, il prezzo è giusto?

Dipende. Siamo tutti d’accordo che dei 695 civili israeliani uccisi nel raid di Hamas il 7 ottobre
anche uno solo è uno di troppo (a me paiono «troppi» anche i 373 delle forze di sicurezza, e pure i
dodicimila presunti «combattenti» palestinesi. Ma forse sono contaminato da residui di ideologia
non-violenta). Comunque, a proposito di proporzioni: fino adesso, il rapporto fra vittime
palestinesi e vittime israeliane – variabile a seconda delle fonti usate – è di circa 40 a uno.
«Tremendamente positiva»?

Ovviamente, tutto questo vale se continuiamo a contare come vittime solo le persone
direttamente uccise in azioni di guerra. Ma – come sapeva l’intervistatore di Madeleine Albright
nel 1996 e come ci hanno insegnato eloquentemente Gino Strada e Emergency – la guerra
ammazza anche in tanti altri modi e continuerà ad ammazzare anche quando diremo che «è
finita».

Secondo la Geneva Declaration on Armed Violence and Development del 2008, approvata da 113
paesi, nelle aree di conflitto armato «per ogni persona che muore per violenza diretta, muoiono
per cause indirette da tre a quindici persone». Basta pensare alle crisi sanitarie in atto, tifo,
poliomielite, fame e agli ostacoli posti agli aiuti umanitari. Su questa base una lettera pubblicata
dalla rivista medica inglese Lancet ipotizzava un fattore di quattro a uno che porterebbe a 186mila
il numero dei morti a Gaza. Forse esagerano. Ma se fossero la metà andrebbe bene, Ms. Harris?
Novantamila sono un prezzo che vale la pena, Mr. Biden? Con i nostri soldi, con le nostre armi –
che facciamo, continuiamo a mandarle?

E noi, quand’è che cominciamo a sentirci turbati? In Cisgiordania, dove in teoria non c’è nessuna
guerra, dal 7 ottobre in poi esercito e coloni hanno approfittato dell’attenzione rivolta a Gaza per
ammazzare 594 persone. Sono «troppi»? Per capirci: abbiamo commemorato in questi giorni la
strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, 560 persone uccise. Per noi, è una ferita insanabile
nella nostra memoria e nella nostra coscienza civile, come ogni crimine simile.

E LA CISGIORDANIA? Persino le autorità israeliane parlano di pogrom; ma i nostri media tacciono e
i governi farfugliano qualche parola di biasimo mentre continuano a mandare armi a chi li uccide. E
ancora: sappiamo se qualcuno sta contando i morti – «civili» o «combattenti» – in Libano?

Nel frattempo, a proposito di antisemitismo, il più grande arresto in massa di ebrei avvenuto dopo
la seconda guerra mondiale in un paese occidentale ha avuto luogo il 22 luglio scorso a
Washington.

Circa duecento partecipanti a una manifestazione indetta da Jewish Voice for Peace, in occasione
del trionfo annunciato di Netanyahu al Congresso, sono stati arrestati per manifestazione non
autorizzata. Duecento ebrei arrestati farebbe notizia dovunque; ma questi non contano. Volevano
la fine dei bombardamenti, gridavano che i morti erano troppi. Ma forse, a essere di troppo, erano
loro.