About Rete Ambientalista Al
Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza
15
Martina Ruscelli1
Margherita Di Giam-
pietro1
Andrea Barbarossa2
Giampiero Pagliuca2
Luigi Corvaglia1
Arianna Aceti1
1 Terapia Intensiva Neona-
tale, IRCCS AOU Bologna,
Dipartimento di Scienze
Mediche e Chirurgiche,
Università di Bologna
2 Dipartimento di Scien-
ze Mediche Veterinarie,
CIRI Scienze della Vita e
Tecnologie per la Salute,
Università di Bologna
Nell’ambito dei contami-
nanti emergenti, stanno
destando sempre mag-
giore interesse ed atten-
zione a livello nazionale
ed internazionale le so-
stanze per- e polifluo-
roalchiliche (PFAS), un
gruppo eterogeneo di
composti chimici sinteti-
ci con uno o più atomi di
carbonio completamente
fluorurati1. La presenza di
legami carbonio-fluoro,
tra i legami covalenti più
forti in natura, conferisce
loro proprietà chimico-
fisiche uniche, quali un’e-
levata
resistenza alla
degradazione
(motivo
per cui sono stati defi-
niti anche come forever
chemicals), nonché idro-
fobicità e oleofobicità;
proprio in virtù di tali ca-
ratteristiche, i PFAS han-
no trovato varie applica-
zioni a partire dagli anni
50 del secolo scorso sia
in ambito industriale, in
cui sono noti soprattutto
come uno dei principali
componenti degli agenti
estinguenti a schiuma
filmogena acquosa, sia
in vari prodotti di con-
sumo, come imballaggi
alimentari, stoviglie an-
tiaderenti,
indumenti,
tappezzeria e prodotti
per la casa2.
Ad oggi, in base all’ul-
timo report della Or-
ganization for Economic
Co-operation and Deve-
lopment del 2018, sono
stati identificati un totale
di 4730 PFAS 3.
Secondo la classifica-
zione in uso dal 2011, i
PFAS si suddividono in
due categorie primarie:
le molecole polimeriche
e quelle non polimeri-
che. A loro volta, le mo-
lecole polimeriche com-
prendono sia sostanze
perfluoroalchiliche (con
catena carboniosa com-
pletamente fluorurata),
che polifluoroalchiliche
(solo parzialmente fluo-
rurate). Tra le sostanze
perfluoroalchiliche
si
trovano gli acidi perfluo-
roalchilici (PFAAs), che
comprendono due delle
molecole più studiate in
assoluto, il perfluorot-
tanosolfonato (PFOS) e
l’acido perfluorottanoi-
co (PFOA). Le molecole
polimeriche
includono,
invece, i fluoropolimeri
(tra cui il PTFE, più co-
munemente noto con il
nome commerciale Te-
flon), i perfluoropolieteri
FOREVER CHEMICALS: SOSTANZE
PERFLUOROALCHILICHE E SALUTE
UMANA, UNA RELAZIONE PER
SEMPRE?
e i polimeri fluorurati a
catena laterale4. La lun-
ghezza della catena car-
boniosa fluorurata è un
importante determinan-
te delle proprietà chimi-
che di questi composti;
infatti, più essa è lunga,
più la molecola risulta
resistente alla biodegra-
dazione, con conseguen-
te maggior rischio di ac-
cumulo nell’ambiente e
tossicità per l’uomo5,6.
L’interesse in merito ai
potenziali effetti sulla
salute umana di queste
sostanze si è sviluppato
nei primi anni 2000, in
seguito al rilevamento
di tali composti nel cir-
colo ematico della fauna
artica2. Da allora, si sono
susseguite varie regola-
mentazioni in merito, a
partire dall’inserimento
del PFOS nella lista dei
POPs (Persistent Organic
Pollutants), soggetti a re-
strizioni secondo la Con-
venzione di Stoccolma
del 2009, con il parallelo
shift dell’industria chimi-
ca verso la produzione
di molecole alternative a
catena breve, i cosiddetti
PFAS emergenti. Tutta-
via, sono sempre più nu-
merose le segnalazioni
in letteratura in merito
all’accumulo ambientale
anche di queste ultime,
con conseguente au-
mento di quelle in corso
di valutazione da parte
della European Chemicals
Agency come sostanze
estremamente preoccu-
panti secondo la norma-
tiva REACH (https://
echa.europa.eu/it/can-
didate-list-table).
L’esposizione umana ai
PFAS può avvenire tra-
mite diverse vie, avendo
come punto di partenza
comune la produzione
industriale. Per quanto
ci siano notevoli diffe-
renze in base ai gruppi di
popolazione analizzati,
si stima che, globalmen-
te, la principale fonte di
esposizione sia quella
alimentare, in partico-
lare tramite pesce, car-
ne, uova, latte e acqua
potabile. Ciò è conse-
continua a pag. 16>>
GdS Nutrizione e Gastroenterologia Neonatale
16
guenza dell’inquinamen-
to ambientale causato
dalle acque reflue de-
gli impianti industriali,
da un lato canalizzate
nella rete fluviale fino a
raggiungere
l’ecosiste-
ma marino, e dall’altro
spesso
impiegate per
produrre
fertilizzanti
agricoli a partire dai fan-
ghi di depurazione, che
determinano contami-
nazione alimentare per
gli animali di allevamen-
to e, in ultima istanza,
per l’uomo. Nel 2020,
la European Food Safety
Authority (EFSA) ha sta-
bilito un nuovo limite di
assunzione di 4.4 ng/
kg a settimana per la
miscela di PFOA, PFNA,
PFHxS, PFOS7. Sono, in-
vece, meno significative
per la popolazione gene-
rale l’inalazione di pre-
cursori volatili e l’esposi-
zione transdermica, che
costituiscono,
tuttavia,
le principali vie di espo-
sizione per i lavoratori
dell’industria chimica2,8.
All’interno
dell’orga-
nismo umano, i PFAS
sembrano comportarsi
come
interferenti en-
docrini, determinando,
potenzialmente, nume-
rosi effetti avversi sulla
salute umana 9. I dati più
consistenti in merito agli
effetti
dell’esposizione
ai PFAS provengono dal
C8 Health Project10, uno
studio longitudinale di
popolazione condotto in
West Virginia su 69.030
abitanti delle zone limi-
trofe agli stabilimenti
della DuPont Washington
Works, nato in seguito
ad un’azione legale col-
lettiva avviata contro
il colosso industriale, a
causa della contamina-
zione delle falde acqui-
fere locali. Dallo studio
è emerso che l’esposi-
zione a PFAS è correlata
a varie patologie umane,
in particolare ipercole-
sterolemia,
alterazioni
della funzionalità tiroi-
dea, ipertensione gesta-
zionale, colite ulcerosa,
neoplasie renali e testi-
colari2. Tali associazioni
sono state in seguito in-
dagate e confermate da
altri lavori in letteratura,
che hanno anche eviden-
ziato un’aumentata inci-
denza di steatosi epatica
precoce,
insulino-resi-
stenza, malattia renale
cronica, obesità infantile
e riduzione della fertilità
in ambo i sessi, per alte-
razioni quali-quantitative
della conta spermatica e
disregolazione del ciclo
mestruale11.
Per quanto riguarda il
campo oncologico, è re-
centissima l’ultima valu-
tazione di PFOA e PFOS
da parte della Interna-
tional Agency for Cancer
Research: il primo è stato
classificato come carci-
nogeno per l’uomo, po-
tendo determinare una
serie di neoplasie beni-
gne e maligne di fegato,
pancreas, utero, rene e
testicolo; il secondo è
stato definito come po-
tenzialmente
carcino-
geno, in base all’asso-
ciazione con alcuni casi
di neoplasie epatiche in
modelli animali e spora-
dici casi di neoplasie al
testicolo, seno e tiroide
nell’uomo. Per entrambi,
è stata evidenziata la po-
tenzialità di determinare
alterazioni epigenetiche,
indurre stress ossidativo
e sopprimere il sistema
immunitario8. Quest’ulti-
mo effetto è confermato
dal riscontro di una ridot-
ta risposta vaccinale e
un’aumentata incidenza
di infezioni in età pedia-
trica in seguito ad espo-
sizione prenatale a PFOS
e PFHxS8,11.
A tal proposito, i bambini
e le donne incinte rap-
presentano popolazioni
particolarmente vulne-
rabili agli effetti di queste
sostanze chimiche. Infat-
ti, l’esposizione a PFAS
in gravidanza non solo è
correlata ad aumentata
incidenza di complicanze
materne, come l’iperten-
sione gestazionale, ma
può avere conseguenze
negative anche sul feto,
incrementando il rischio
di prematurità e bas-
so peso alla nascita2,12.
Alcuni degli effetti dei
PFAS sul neonato, e suc-
cessivamente sul bam-
bino, potrebbero essere
mediati da alterazioni
precoci del microbiota,
come variazioni nella
biodiversità
batterica13
(in particolare aumento
di Enterococchi e ridu-
zione di Lattobacilli14),
che in questa fase della
vita potrebbe contribuire
a conseguenze cliniche
sfavorevoli, come l’au-
mento della suscettibilità
a infezioni respiratorie,
condizione, peraltro, già
associata all’esposizione
a PFAS8,11. Per tali motivi,
lo studio multiomico del-
le caratteristiche e delle
funzioni del microbiota
neonatale potrebbe es-
sere estremamente utile
per comprendere meglio
la tossicità di questi con-
taminanti.
Dopo la fase prenatale, il
neonato continua a rice-
vere PFAS tramite sia il
latte materno, che quel-
lo in formula, tant’è che
le concentrazioni ema-
tiche nei lattanti posso-
no superare in maniera
significativa quelle ma-
terne15. Secondo l’EFSA,
le concentrazioni di tali
composti nel latte ma-
terno non dovrebbero
superare i 60 ng/L per
PFOA e PFNA, 73 ng/L
per PFHxS e PFOS e 133
ng/L per la somma dei
quattro7. LaKind et al.15
hanno evidenziato che a
livello globale le concen-
trazioni di PFAS nel latte
materno, che dovrebbe
costituire l’unica fonte di
alimentazione per i primi
sei mesi di vita, spesso
superano i livelli di si-
curezza pediatrici di tali
sostanze nell’acqua po-
tabile. Ciò non significa
che abbiano necessaria-
mente un impatto nega-
tivo sulla salute, ma pone
l’accento sulla necessità
di una valutazione più
approfondita in merito
alla presenza di tali so-
stanze nel latte.
Questa tematica risulta
ancora più importante
per i neonati prematuri,
nei quali l’effetto immu-
nosoppressivo dei PFAS
assunti tramite latte ma-
terno o donato può ave-
re un impatto notevole
a causa della maggiore
vulnerabilità del loro si-
stema immunitario16. At-
tualmente, i dati in lette-
ratura relativi al rapporto
tra PFAS e prematurità
sono molto limitati e
rappresentano un cam-
po meritevole di ulteriori
analisi; dati preliminari
suggeriscono,
tuttavia,
per questi pazienti dei li-
velli di esposizione supe-
riori ai limiti di sicurezza
stabiliti dall’EFSA16.
Per quanto riguarda, in-
vece, il latte di banca,
Serrano et al.17 hanno
condotto uno studio su
una coorte di 82 dona-
trici della Banca del Lat-
te di Granada, da cui è
emersa la presenza di
numerosi PFAS nei cam-
pioni di latte, con netta
prevalenza di composti
a catena breve (PFHpA
e PFHxA) su quelli a ca-
tena lunga, eccezion fat-
ta per la persistenza di
PFOA e PFNA, benché a
concentrazioni
inferiori
rispetto ai dati riportati
in studi precedenti. Ol-
tre ai cambiamenti nella
produzione
industriale,
probabilmente ciò è do-
vuto anche alla maggiore
solubilità e minor peso
molecolare dei compo-
sti a catena breve, che
segue da pag. 15
continua a pag. 17>>
17
ne facilitano il passaggio
attraverso le membrane
dell’epitelio mammario.
Somministrando
alla
stessa coorte di madri
un questionario relativo
al contesto sociodemo-
grafico e allo stile di vita,
è stata riscontrata un’as-
sociazione tra livelli più
alti di PFAS ed elevata
assunzione di carne e
cibi fritti, vita in conte-
sto urbano e utilizzo di
prodotti per la cura per-
sonale, quali cosmetici,
creme solari e profumi.
Meno chiara è l’associa-
zione con l’età materna,
l’incremento ponderale
durante la gravidanza e
la parità, sebbene in me-
rito a quest’ultima vari
lavori sembrano sugge-
rire un aumentato tra-
sferimento di PFAS, sia
per via transplacentare,
che in allattamento, ai
primogeniti18.
Per quanto
riguarda,
invece, il latte in formu-
la, le concentrazioni di
PFAS potrebbero essere
inferiori rispetto al latte
materno, ma al momen-
to i dati in letteratura
risultano
contrastanti.
Inoltre, la quota di PFAS
presente nelle prepara-
zioni in polvere e nell’ac-
qua utilizzata per rico-
stituirle può variare in
maniera significativa sia
in base alla produzione
industriale, che alle di-
verse aree geografiche15.
Come per altre fonti di
esposizione, anche per il
latte sono emerse note-
voli differenze geografi-
che: le concentrazioni di
PFAS nel latte delle ma-
dri asiatiche, soprattutto
cinesi, risultano sensi-
bilmente più alte rispet-
to a quelle europee19,
comprendendo
anche
elevate quantità di quel-
li di nuova generazione
(come gli PFECAs, acidi
perfluoroeteri carbossi-
lici)20.
Il trasporto dei PFAS
nel latte avviene, vero-
similmente, grazie al
legame con le proteine,
pertanto,
considerata
la fisiologica riduzione
della quota proteica, in
particolare nell’arco dei
primi sei mesi di allatta-
mento, è stato ipotizza-
to un parallelo trend in
diminuzione delle con-
centrazioni di PFAS. Un
recente studio svedese21,
condotto su una coorte
di 77 madri, seguite fino
a 4-12 settimane post-
partum, ha confermato
che le concentrazioni di
tali composti nel latte si
modificano con il passa-
re del tempo, seguendo
traiettorie che variano in
base al tipo di molecola.
Nello specifico, i livelli di
PFOS hanno mostrato
un aumento fino al 21%
nel latte maturo rispet-
to al colostro, mentre
PFOA e PFHxS risultano
diminuiti rispettivamen-
te del 17% e 12%. Inoltre,
minori quantità di colo-
stro si associano com-
plessivamente a mag-
giore quantità di PFAS, e
viceversa.
Non da ultimo, l’esposi-
zione materna a queste
sostanze è stata cor-
relata a ridotta durata
dell’allattamento11,22,
a
causa della loro azione
di disregolazione endo-
crina; pertanto, le con-
seguenze sulla salute del
neonato e del lattante
potrebbero risultare non
solo dall’accumulo di
PFAS nell’organismo, ma
anche
potenzialmente
da un limitato accesso ai
ben noti benefici del latte
materno.
Nel complesso, le evi-
denze descritte
sug-
geriscono
l’impellente
necessità
di
avviare
programmi di monito-
raggio dei livelli di PFAS,
sia vecchi che emer-
genti, nel latte materno,
formulato e nell’acqua
utilizzata per le prepara-
zioni in formula, e di sta-
bilire limiti di sicurezza
per le loro concentrazio-
ni in questi liquidi. Sono,
inoltre, necessari studi
longitudinali su ampie
coorti di pazienti, che
consentano di osservare
le conseguenze cliniche a
lungo termine dell’espo-
sizione precoce a queste
sostanze15,23. Essendo il
latte un alimento impre-
scindibile nelle prime fasi
della vita, una migliore
comprensione di questi
meccanismi sarà utile
per mettere in atto azio-
ni di tutela delle donne in
età fertile, in gravidanza e
in allattamento, che pre-
sentino, in ultima istanza,
un consequenziale river-
bero positivo, e quindi
protettivo, anche sui loro
bambini.
“Chi ben comincia è a
metà dell’opera”: partia-
mo dalla prevenzione
Riflettendo su quanto
detto finora, ci siamo
chiesti se sia possibile
fornire qualche indica-
zione pratica per ridurre
l’esposizione ai PFAS
delle donne in età fertile
e dei bambini, special-
mente nella nota fine-
stra temporale dei primi
1000 giorni di vita, pe-
riodo caratterizzato da
maggiore suscettibilità a
fattori ambientali e fon-
dativo per la crescita e lo
sviluppo dell’individuo24.
Sicuramente si tratta di
un campo ancora poco
conosciuto ma, citando
LaKind, i dati disponibili
e gli algoritmi di stima
dei rischi ci suggeri-
scono che “action - not
waiting - is needed”23.
Nell’immediato, è possi-
bile agire principalmente
in ambito alimentare e
domestico, avendo al-
cune piccole accortezze.
In particolare, sarebbe
utile evitare che i cibi e
le bevande vengano a
contatto con contenitori
o imballaggi di plasti-
ca, preferendo materiali
come il vetro. L’acqua, sia
potabile, sia quella utiliz-
zata per ricostituire il lat-
te in polvere e per lavare
le stoviglie, dovrebbe es-
sere il più possibile scevra
da contaminazioni; tutta-
via, questo punto è forte-
mente dipendente dalla
localizzazione geografica
e dalla vicinanza a fonti
di inquinamento. Inoltre,
dovrebbe essere limitato
l’utilizzo delle spugne in
plastica per la detersio-
ne di stoviglie e superfici,
preferendo quelle in fibre
naturali. Poiché la dia-
de madre-figlio tende a
trascorrere molto tempo
all’interno dell’ambiente
domestico, dove è pos-
sibile l’inalazione di pre-
cursori volatili dei PFAS
rilasciati da tappezzeria
e prodotti per la casa, è
segue da pag. 16
continua a pag. 18>>
18
segue da pag. 17
importante un adeguato
ricircolo dell’aria negli
ambienti chiusi e l’utiliz-
zo di biancheria e tappeti
possibilmente
in fibre
naturali25. Peraltro, po-
trebbe essere opportuno
limitare l’utilizzo di fon-
dotinta, smalti, prodotti
per capelli, deodoranti e
profumi, che comporta-
no esposizione non solo
della madre, ma anche
del bambino, tramite la
dispersione nell’ambien-
te17.
Per quanto riguarda il
regime alimentare, ri-
sulta, invece, più com-
plesso esprimersi,
in
quanto mancano ancora
dati esaustivi; tuttavia,
si può affermare che i
cibi a maggiore conte-
nuto di PFAS sono quelli
di derivazione animale
(pesce, carne, uova, lat-
te), specialmente in am-
bienti limitrofi a sedi in-
dustriali, con importante
contaminazione
delle
falde acquifere. Per que-
sto, al di là delle piccole
azioni quotidiane, non si
potrà prescindere dallo
sviluppo di nuovi atti re-
golatori per la produzio-
ne industriale, sostenuti
dalla progressione delle
conoscenze scientifiche
sull’“universo PFAS”.
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Giampiero Pagliuca2
Luigi Corvaglia1
Arianna Aceti1
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tale, IRCCS AOU Bologna,
Dipartimento di Scienze
Mediche e Chirurgiche,
Università di Bologna
2 Dipartimento di Scien-
ze Mediche Veterinarie,
CIRI Scienze della Vita e
Tecnologie per la Salute,
Università di Bologna
Nell’ambito dei contami-
nanti emergenti, stanno
destando sempre mag-
giore interesse ed atten-
zione a livello nazionale
ed internazionale le so-
stanze per- e polifluo-
roalchiliche (PFAS), un
gruppo eterogeneo di
composti chimici sinteti-
ci con uno o più atomi di
carbonio completamente
fluorurati1. La presenza di
legami carbonio-fluoro,
tra i legami covalenti più
forti in natura, conferisce
loro proprietà chimico-
fisiche uniche, quali un’e-
levata
resistenza alla
degradazione
(motivo
per cui sono stati defi-
niti anche come forever
chemicals), nonché idro-
fobicità e oleofobicità;
proprio in virtù di tali ca-
ratteristiche, i PFAS han-
no trovato varie applica-
zioni a partire dagli anni
50 del secolo scorso sia
in ambito industriale, in
cui sono noti soprattutto
come uno dei principali
componenti degli agenti
estinguenti a schiuma
filmogena acquosa, sia
in vari prodotti di con-
sumo, come imballaggi
alimentari, stoviglie an-
tiaderenti,
indumenti,
tappezzeria e prodotti
per la casa2.
Ad oggi, in base all’ul-
timo report della Or-
ganization for Economic
Co-operation and Deve-
lopment del 2018, sono
stati identificati un totale
di 4730 PFAS 3.
Secondo la classifica-
zione in uso dal 2011, i
PFAS si suddividono in
due categorie primarie:
le molecole polimeriche
e quelle non polimeri-
che. A loro volta, le mo-
lecole polimeriche com-
prendono sia sostanze
perfluoroalchiliche (con
catena carboniosa com-
pletamente fluorurata),
che polifluoroalchiliche
(solo parzialmente fluo-
rurate). Tra le sostanze
perfluoroalchiliche
si
trovano gli acidi perfluo-
roalchilici (PFAAs), che
comprendono due delle
molecole più studiate in
assoluto, il perfluorot-
tanosolfonato (PFOS) e
l’acido perfluorottanoi-
co (PFOA). Le molecole
polimeriche
includono,
invece, i fluoropolimeri
(tra cui il PTFE, più co-
munemente noto con il
nome commerciale Te-
flon), i perfluoropolieteri
FOREVER CHEMICALS: SOSTANZE
PERFLUOROALCHILICHE E SALUTE
UMANA, UNA RELAZIONE PER
SEMPRE?
e i polimeri fluorurati a
catena laterale4. La lun-
ghezza della catena car-
boniosa fluorurata è un
importante determinan-
te delle proprietà chimi-
che di questi composti;
infatti, più essa è lunga,
più la molecola risulta
resistente alla biodegra-
dazione, con conseguen-
te maggior rischio di ac-
cumulo nell’ambiente e
tossicità per l’uomo5,6.
L’interesse in merito ai
potenziali effetti sulla
salute umana di queste
sostanze si è sviluppato
nei primi anni 2000, in
seguito al rilevamento
di tali composti nel cir-
colo ematico della fauna
artica2. Da allora, si sono
susseguite varie regola-
mentazioni in merito, a
partire dall’inserimento
del PFOS nella lista dei
POPs (Persistent Organic
Pollutants), soggetti a re-
strizioni secondo la Con-
venzione di Stoccolma
del 2009, con il parallelo
shift dell’industria chimi-
ca verso la produzione
di molecole alternative a
catena breve, i cosiddetti
PFAS emergenti. Tutta-
via, sono sempre più nu-
merose le segnalazioni
in letteratura in merito
all’accumulo ambientale
anche di queste ultime,
con conseguente au-
mento di quelle in corso
di valutazione da parte
della European Chemicals
Agency come sostanze
estremamente preoccu-
panti secondo la norma-
tiva REACH (https://
echa.europa.eu/it/can-
didate-list-table).
L’esposizione umana ai
PFAS può avvenire tra-
mite diverse vie, avendo
come punto di partenza
comune la produzione
industriale. Per quanto
ci siano notevoli diffe-
renze in base ai gruppi di
popolazione analizzati,
si stima che, globalmen-
te, la principale fonte di
esposizione sia quella
alimentare, in partico-
lare tramite pesce, car-
ne, uova, latte e acqua
potabile. Ciò è conse-
continua a pag. 16>>
GdS Nutrizione e Gastroenterologia Neonatale
16
guenza dell’inquinamen-
to ambientale causato
dalle acque reflue de-
gli impianti industriali,
da un lato canalizzate
nella rete fluviale fino a
raggiungere
l’ecosiste-
ma marino, e dall’altro
spesso
impiegate per
produrre
fertilizzanti
agricoli a partire dai fan-
ghi di depurazione, che
determinano contami-
nazione alimentare per
gli animali di allevamen-
to e, in ultima istanza,
per l’uomo. Nel 2020,
la European Food Safety
Authority (EFSA) ha sta-
bilito un nuovo limite di
assunzione di 4.4 ng/
kg a settimana per la
miscela di PFOA, PFNA,
PFHxS, PFOS7. Sono, in-
vece, meno significative
per la popolazione gene-
rale l’inalazione di pre-
cursori volatili e l’esposi-
zione transdermica, che
costituiscono,
tuttavia,
le principali vie di espo-
sizione per i lavoratori
dell’industria chimica2,8.
All’interno
dell’orga-
nismo umano, i PFAS
sembrano comportarsi
come
interferenti en-
docrini, determinando,
potenzialmente, nume-
rosi effetti avversi sulla
salute umana 9. I dati più
consistenti in merito agli
effetti
dell’esposizione
ai PFAS provengono dal
C8 Health Project10, uno
studio longitudinale di
popolazione condotto in
West Virginia su 69.030
abitanti delle zone limi-
trofe agli stabilimenti
della DuPont Washington
Works, nato in seguito
ad un’azione legale col-
lettiva avviata contro
il colosso industriale, a
causa della contamina-
zione delle falde acqui-
fere locali. Dallo studio
è emerso che l’esposi-
zione a PFAS è correlata
a varie patologie umane,
in particolare ipercole-
sterolemia,
alterazioni
della funzionalità tiroi-
dea, ipertensione gesta-
zionale, colite ulcerosa,
neoplasie renali e testi-
colari2. Tali associazioni
sono state in seguito in-
dagate e confermate da
altri lavori in letteratura,
che hanno anche eviden-
ziato un’aumentata inci-
denza di steatosi epatica
precoce,
insulino-resi-
stenza, malattia renale
cronica, obesità infantile
e riduzione della fertilità
in ambo i sessi, per alte-
razioni quali-quantitative
della conta spermatica e
disregolazione del ciclo
mestruale11.
Per quanto riguarda il
campo oncologico, è re-
centissima l’ultima valu-
tazione di PFOA e PFOS
da parte della Interna-
tional Agency for Cancer
Research: il primo è stato
classificato come carci-
nogeno per l’uomo, po-
tendo determinare una
serie di neoplasie beni-
gne e maligne di fegato,
pancreas, utero, rene e
testicolo; il secondo è
stato definito come po-
tenzialmente
carcino-
geno, in base all’asso-
ciazione con alcuni casi
di neoplasie epatiche in
modelli animali e spora-
dici casi di neoplasie al
testicolo, seno e tiroide
nell’uomo. Per entrambi,
è stata evidenziata la po-
tenzialità di determinare
alterazioni epigenetiche,
indurre stress ossidativo
e sopprimere il sistema
immunitario8. Quest’ulti-
mo effetto è confermato
dal riscontro di una ridot-
ta risposta vaccinale e
un’aumentata incidenza
di infezioni in età pedia-
trica in seguito ad espo-
sizione prenatale a PFOS
e PFHxS8,11.
A tal proposito, i bambini
e le donne incinte rap-
presentano popolazioni
particolarmente vulne-
rabili agli effetti di queste
sostanze chimiche. Infat-
ti, l’esposizione a PFAS
in gravidanza non solo è
correlata ad aumentata
incidenza di complicanze
materne, come l’iperten-
sione gestazionale, ma
può avere conseguenze
negative anche sul feto,
incrementando il rischio
di prematurità e bas-
so peso alla nascita2,12.
Alcuni degli effetti dei
PFAS sul neonato, e suc-
cessivamente sul bam-
bino, potrebbero essere
mediati da alterazioni
precoci del microbiota,
come variazioni nella
biodiversità
batterica13
(in particolare aumento
di Enterococchi e ridu-
zione di Lattobacilli14),
che in questa fase della
vita potrebbe contribuire
a conseguenze cliniche
sfavorevoli, come l’au-
mento della suscettibilità
a infezioni respiratorie,
condizione, peraltro, già
associata all’esposizione
a PFAS8,11. Per tali motivi,
lo studio multiomico del-
le caratteristiche e delle
funzioni del microbiota
neonatale potrebbe es-
sere estremamente utile
per comprendere meglio
la tossicità di questi con-
taminanti.
Dopo la fase prenatale, il
neonato continua a rice-
vere PFAS tramite sia il
latte materno, che quel-
lo in formula, tant’è che
le concentrazioni ema-
tiche nei lattanti posso-
no superare in maniera
significativa quelle ma-
terne15. Secondo l’EFSA,
le concentrazioni di tali
composti nel latte ma-
terno non dovrebbero
superare i 60 ng/L per
PFOA e PFNA, 73 ng/L
per PFHxS e PFOS e 133
ng/L per la somma dei
quattro7. LaKind et al.15
hanno evidenziato che a
livello globale le concen-
trazioni di PFAS nel latte
materno, che dovrebbe
costituire l’unica fonte di
alimentazione per i primi
sei mesi di vita, spesso
superano i livelli di si-
curezza pediatrici di tali
sostanze nell’acqua po-
tabile. Ciò non significa
che abbiano necessaria-
mente un impatto nega-
tivo sulla salute, ma pone
l’accento sulla necessità
di una valutazione più
approfondita in merito
alla presenza di tali so-
stanze nel latte.
Questa tematica risulta
ancora più importante
per i neonati prematuri,
nei quali l’effetto immu-
nosoppressivo dei PFAS
assunti tramite latte ma-
terno o donato può ave-
re un impatto notevole
a causa della maggiore
vulnerabilità del loro si-
stema immunitario16. At-
tualmente, i dati in lette-
ratura relativi al rapporto
tra PFAS e prematurità
sono molto limitati e
rappresentano un cam-
po meritevole di ulteriori
analisi; dati preliminari
suggeriscono,
tuttavia,
per questi pazienti dei li-
velli di esposizione supe-
riori ai limiti di sicurezza
stabiliti dall’EFSA16.
Per quanto riguarda, in-
vece, il latte di banca,
Serrano et al.17 hanno
condotto uno studio su
una coorte di 82 dona-
trici della Banca del Lat-
te di Granada, da cui è
emersa la presenza di
numerosi PFAS nei cam-
pioni di latte, con netta
prevalenza di composti
a catena breve (PFHpA
e PFHxA) su quelli a ca-
tena lunga, eccezion fat-
ta per la persistenza di
PFOA e PFNA, benché a
concentrazioni
inferiori
rispetto ai dati riportati
in studi precedenti. Ol-
tre ai cambiamenti nella
produzione
industriale,
probabilmente ciò è do-
vuto anche alla maggiore
solubilità e minor peso
molecolare dei compo-
sti a catena breve, che
segue da pag. 15
continua a pag. 17>>
17
ne facilitano il passaggio
attraverso le membrane
dell’epitelio mammario.
Somministrando
alla
stessa coorte di madri
un questionario relativo
al contesto sociodemo-
grafico e allo stile di vita,
è stata riscontrata un’as-
sociazione tra livelli più
alti di PFAS ed elevata
assunzione di carne e
cibi fritti, vita in conte-
sto urbano e utilizzo di
prodotti per la cura per-
sonale, quali cosmetici,
creme solari e profumi.
Meno chiara è l’associa-
zione con l’età materna,
l’incremento ponderale
durante la gravidanza e
la parità, sebbene in me-
rito a quest’ultima vari
lavori sembrano sugge-
rire un aumentato tra-
sferimento di PFAS, sia
per via transplacentare,
che in allattamento, ai
primogeniti18.
Per quanto
riguarda,
invece, il latte in formu-
la, le concentrazioni di
PFAS potrebbero essere
inferiori rispetto al latte
materno, ma al momen-
to i dati in letteratura
risultano
contrastanti.
Inoltre, la quota di PFAS
presente nelle prepara-
zioni in polvere e nell’ac-
qua utilizzata per rico-
stituirle può variare in
maniera significativa sia
in base alla produzione
industriale, che alle di-
verse aree geografiche15.
Come per altre fonti di
esposizione, anche per il
latte sono emerse note-
voli differenze geografi-
che: le concentrazioni di
PFAS nel latte delle ma-
dri asiatiche, soprattutto
cinesi, risultano sensi-
bilmente più alte rispet-
to a quelle europee19,
comprendendo
anche
elevate quantità di quel-
li di nuova generazione
(come gli PFECAs, acidi
perfluoroeteri carbossi-
lici)20.
Il trasporto dei PFAS
nel latte avviene, vero-
similmente, grazie al
legame con le proteine,
pertanto,
considerata
la fisiologica riduzione
della quota proteica, in
particolare nell’arco dei
primi sei mesi di allatta-
mento, è stato ipotizza-
to un parallelo trend in
diminuzione delle con-
centrazioni di PFAS. Un
recente studio svedese21,
condotto su una coorte
di 77 madri, seguite fino
a 4-12 settimane post-
partum, ha confermato
che le concentrazioni di
tali composti nel latte si
modificano con il passa-
re del tempo, seguendo
traiettorie che variano in
base al tipo di molecola.
Nello specifico, i livelli di
PFOS hanno mostrato
un aumento fino al 21%
nel latte maturo rispet-
to al colostro, mentre
PFOA e PFHxS risultano
diminuiti rispettivamen-
te del 17% e 12%. Inoltre,
minori quantità di colo-
stro si associano com-
plessivamente a mag-
giore quantità di PFAS, e
viceversa.
Non da ultimo, l’esposi-
zione materna a queste
sostanze è stata cor-
relata a ridotta durata
dell’allattamento11,22,
a
causa della loro azione
di disregolazione endo-
crina; pertanto, le con-
seguenze sulla salute del
neonato e del lattante
potrebbero risultare non
solo dall’accumulo di
PFAS nell’organismo, ma
anche
potenzialmente
da un limitato accesso ai
ben noti benefici del latte
materno.
Nel complesso, le evi-
denze descritte
sug-
geriscono
l’impellente
necessità
di
avviare
programmi di monito-
raggio dei livelli di PFAS,
sia vecchi che emer-
genti, nel latte materno,
formulato e nell’acqua
utilizzata per le prepara-
zioni in formula, e di sta-
bilire limiti di sicurezza
per le loro concentrazio-
ni in questi liquidi. Sono,
inoltre, necessari studi
longitudinali su ampie
coorti di pazienti, che
consentano di osservare
le conseguenze cliniche a
lungo termine dell’espo-
sizione precoce a queste
sostanze15,23. Essendo il
latte un alimento impre-
scindibile nelle prime fasi
della vita, una migliore
comprensione di questi
meccanismi sarà utile
per mettere in atto azio-
ni di tutela delle donne in
età fertile, in gravidanza e
in allattamento, che pre-
sentino, in ultima istanza,
un consequenziale river-
bero positivo, e quindi
protettivo, anche sui loro
bambini.
“Chi ben comincia è a
metà dell’opera”: partia-
mo dalla prevenzione
Riflettendo su quanto
detto finora, ci siamo
chiesti se sia possibile
fornire qualche indica-
zione pratica per ridurre
l’esposizione ai PFAS
delle donne in età fertile
e dei bambini, special-
mente nella nota fine-
stra temporale dei primi
1000 giorni di vita, pe-
riodo caratterizzato da
maggiore suscettibilità a
fattori ambientali e fon-
dativo per la crescita e lo
sviluppo dell’individuo24.
Sicuramente si tratta di
un campo ancora poco
conosciuto ma, citando
LaKind, i dati disponibili
e gli algoritmi di stima
dei rischi ci suggeri-
scono che “action - not
waiting - is needed”23.
Nell’immediato, è possi-
bile agire principalmente
in ambito alimentare e
domestico, avendo al-
cune piccole accortezze.
In particolare, sarebbe
utile evitare che i cibi e
le bevande vengano a
contatto con contenitori
o imballaggi di plasti-
ca, preferendo materiali
come il vetro. L’acqua, sia
potabile, sia quella utiliz-
zata per ricostituire il lat-
te in polvere e per lavare
le stoviglie, dovrebbe es-
sere il più possibile scevra
da contaminazioni; tutta-
via, questo punto è forte-
mente dipendente dalla
localizzazione geografica
e dalla vicinanza a fonti
di inquinamento. Inoltre,
dovrebbe essere limitato
l’utilizzo delle spugne in
plastica per la detersio-
ne di stoviglie e superfici,
preferendo quelle in fibre
naturali. Poiché la dia-
de madre-figlio tende a
trascorrere molto tempo
all’interno dell’ambiente
domestico, dove è pos-
sibile l’inalazione di pre-
cursori volatili dei PFAS
rilasciati da tappezzeria
e prodotti per la casa, è
segue da pag. 16
continua a pag. 18>>
18
segue da pag. 17
importante un adeguato
ricircolo dell’aria negli
ambienti chiusi e l’utiliz-
zo di biancheria e tappeti
possibilmente
in fibre
naturali25. Peraltro, po-
trebbe essere opportuno
limitare l’utilizzo di fon-
dotinta, smalti, prodotti
per capelli, deodoranti e
profumi, che comporta-
no esposizione non solo
della madre, ma anche
del bambino, tramite la
dispersione nell’ambien-
te17.
Per quanto riguarda il
regime alimentare, ri-
sulta, invece, più com-
plesso esprimersi,
in
quanto mancano ancora
dati esaustivi; tuttavia,
si può affermare che i
cibi a maggiore conte-
nuto di PFAS sono quelli
di derivazione animale
(pesce, carne, uova, lat-
te), specialmente in am-
bienti limitrofi a sedi in-
dustriali, con importante
contaminazione
delle
falde acquifere. Per que-
sto, al di là delle piccole
azioni quotidiane, non si
potrà prescindere dallo
sviluppo di nuovi atti re-
golatori per la produzio-
ne industriale, sostenuti
dalla progressione delle
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