Genova, il grande porto amato dalla ‘ndrangheta

Genova, il grande porto amato dalla ‘ndrangheta, updated 6/20/24, 3:53 PM

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Genova, il grande porto amato dalla ‘ndrangheta

Vi portiamo al porto di Genova, tra recenti scandali corruzione, ripercorrendo la
storia dell’infiltrazione mafiosa e raccontando gli ultimi sequestri e arresti tra
Colombia e Liguria

di Cecilia Anesi e Simone Olivelli
Editing: Giulio Rubino https://irpimedia.irpi.eu/newsletter/#mafieglocal

I porti, per le mafie moderne, sono lo snodo logico e fondamentale per i propri
traffici. Droga, armi, beni di contrabbando. Nascoste dal movimento perpetuo e
incontrollabile di milioni di container ogni giorno, gli affari illeciti prosperano
all’interno del sistema logistico marittimo, che deve correre rapido per servire
il sistema economico che lo ha inventato. I porti del mondo competono tra loro
proprio sulla velocità, perché le tariffe di attracco per le navi sono alte, e le
aziende del trasporto marittimo le pagano volentieri solo se le operazioni di carico
e scarico sono gestite con la massima efficienza. Le evoluzioni e i trend nella
gestione degli scali marittimi inoltre, non vanno certo nella direzione della
sicurezza: automazione e tecnologie moderne vengono infatti implementate per
aumentare velocità e volume dei carichi gestiti, parole chiave per aumentare i
profitti.
In questo contesto il “gioco” fra guardie e ladri si fa sempre più raffinato: le forze
dell’ordine in tutto il mondo elaborano costantemente algoritmi di analisi del
rischio e strategie di controlli a campione sempre più evolute, le mafie, i cui
business valgono ormai decine e decine di miliardi all’anno, si impegnano per
prendere il controllo degli scali marittimi nel modo più completo possibile
Prendere il controllo di un porto importante, per un’organizzazione criminale, può
rappresentare un salto di qualità importante. Significa entrare nella serie A del
crimine organizzato. Non solo ci si garantisce un canale fondamentale per
movimentare droga, tutt’oggi l’affare più redditizio di ogni mafia, ma ci si trova
nella posizione privilegiata di poter “affittare” il porto alle altre mafie: è noto,
per esempio, come a Gioia Tauro le famiglie che controllavano il porto offrissero il
servizio di “scarico sicuro” della merce illecita alle altre famiglie.

Dalle creuze de ma s’arriva al porto più grande d’Italia
In questa prima puntata della newsletter #mafieglocal abbiamo deciso di portarvi
dentro al mondo dei porti guardando in particolare a quello di Genova. Ci sono
una serie di ragioni per scegliere questo porto, che la città abbraccia a partire
dalle creuze de ma, i viottoli di mare di cui ha cantato De Andrè. La prima è che è
il porto più esteso d’Italia, e fra i maggiori in termini di movimento merci. Ha
quattro scali: Genova, Prà, Vado Ligure e Savona, e 30 terminal, sei dei quali
dedicati ai container (come movimentazione container è secondo solo a Gioia
Tauro). Gode poi di un’ottima posizione: al centro del Mediterraneo, ma collegato
al resto d’Europa, inclusi i porti del nord come Rotterdam (via autostrada e con
una ferrovia in costruzione).
I principali terminal sono il Psa Voltri Prà, il terminal Sech, il terminal gruppo
Spinelli (che da ottobre 2022 è per il 49% controllato da Hapag-Lloyd), il terminal
Calata Bettolo MSC (operativo da marzo 2019), il terminal Intermodal Marine e il
terminal San Giorgio. Secondo le più recenti stime di Llodys, nel 2023 era
all’ottantesimo posto nella classifica dei porti mondiali, movimentando 2,74
milioni di Teu (twenty-foot equivalent unit, unità di misura dei container spesso
usata per misurare la capacità di un porto) all’anno.
Ma c’è una terza ragione che ci ha spinto a scegliere Genova per questa edizione,
e riguarda una storia che con la mafia non c’entra: è la storia dello scandalo Toti
finita su tutti i Tg nell’ultimo mese. Perché se è vero che la corruzione non è
prerogativa delle sole mafie, e il porto di Genova è stato infiltrato dalla criminalità
organizzata ben prima di questa vicenda, è vero pure che senza istituzioni sane
diventa quasi impossibile combatterla.
Il caso Toti tocca molto da vicino il funzionamento del porto, e se ovviamente a
condannare gli eventuali colpevoli o ad assolvere gli innocenti ci penserà un
processo, nelle accuse sono coinvolti personaggi e aziende chiave, quelle che
gestiscono i terminal portuali, aziende che per natura sono bersaglio dei tentativi
di influenza criminale per il ruolo che possono svolgere nelle operazioni di
narcotraffico.
Senza quindi voler suggerire un collegamento diretto che, al momento, non c’è,
pensiamo comunque che il giornalismo debba mettere in evidenza la famosa
“zona grigia” dove prosperano le figure intermedie, i professionisti e gli
imprenditori, di cui le mafie hanno spesso bisogno.

Il terminal Spinelli e le mire d’espansione
Il mese scorso l’attenzione generale è stata rivolta all’infrastruttura genovese per
lo scandalo corruzione che vede coinvolti il governatore Giovanni Toti, l’ex
presidente dell’Autorità portuale Paolo Emilio Signorini e gli imprenditori Aldo e
Roberto Spinelli. Padre e figlio gestiscono in concessione più di un terminal
presente nel porto di Genova: gestiscono dal 2001 il Genoa Port Terminal, mentre
detengono le quote di maggioranza della Terminal Rinfuse Genova Srl, società che
opera nell’omonimo terminal.
Nel primo caso, il gruppo Spinelli gestisce l’area in cui vengono movimentati oltre
580.000 Teu annui. A fare riferimento al terminal sono sia le navi portacontainer
che le navi ro-ro (Roll on, Roll off), ovvero quelle adibite al trasporto di mezzi su
ruote. I servizi offerti vanno dalle operazioni di sbarco e imbarco alla
movimentazione all’interno dei terminal, ma riguardano anche il trasporto
intermodale, la riparazione, la conservazione delle merci nei magazzini
(warehousing) e la gestione dei container.
Le destinazioni coperte dal Genoa Port Terminal riguardano le Americhe, il Nord
Africa, ma anche le principali isole del Mediterraneo, Israele e la Turchia. Nel
Terminal Rinfuse, invece, attualmente vengono gestite le operazioni di sbarco,
imbarco, stoccaggio e ricarico sugli automezzi di prodotti cosiddetti alla rinfusa,
come carbone, sale da disgelo, cemento. Proprio con l’obiettivo di velocizzare l’iter
per ottenere la concessione trentennale di questo terminal, Aldo e Roberto
Spinelli avrebbero - stando alle accuse - pagato tangenti, sotto forma di
finanziamenti illeciti al comitato elettorale, al governatore della Regione Liguria
Toti.
Per ottenere tutto ciò, gli Spinelli avrebbero corrotto non solo Toti ma anche Paolo
Emilio Signorini, all’epoca dei fatti presidente dell’Autorità di sistema portuale del
Mar ligure occidentale. A Signorini sarebbero stati consegnati soldi, ma anche
regalati viaggi in hotel di lusso a Montecarlo, fiche per giocare al casinò, gioielli e
accessori di marchi pregiati. «Sono buttato in barca da Aldo. Quando gliela
portiamo ‘sta proroga in Comitato?», diceva Toti parlando al telefono con Signorini
alla fine dell’estate 2021, mentre si trovava a bordo dello yacht di Spinelli. «Digli
di stare tranquillissimo», era stata la risposta di Signorini.
Un business enorme dunque, quello dei moli, e che in tutto il mondo è gestito da
aziende che riescono solitamente a restare lontane dalle indagini antidroga,
nonostante, come vedremo, siano spesso oggetto di tentativi (spesso di successo)
di infiltrazione mafiosa. Non si sente di aziende di movimentazione container che
finiscano nei guai, come non si sente di aziende spedizioniere come Maersk, CMA
o CGM che finiscono nei guai. Eppure, come dimostra una recente inchiesta di
Occrp e dei partner colombiani di Cuestion Publica, si possono notare pattern di
preferenza - da parte dei narcos - di certe aziende, o certi moli, piuttosto che altri.
Le aziende di gestione terminal e come le mafie sfruttano la logistica
Ci sono due modi di trasportare la cocaina via container marittimi. Uno è il
carico rip-on, che potremmo tradurre in “coperto”, l’altro è il carico rip-off, che
potremmo tradurre in “scoperto”.
Il primo è un metodo di trasporto azienda su azienda, ovvero (nella maggior
parte dei casi) i narcotrafficanti dispongono di un’azienda connivente che invia e
un’altra azienda connivente che riceve. Quando si usa questo sistema il carico
illecito è accuratamente nascosto fra quello di copertura, a volte in modo
estremamente fantasioso o complesso: la cocaina può essere occultata dentro
macchinari, mascherata nelle pepite di carbone, o anche resa liquida e assorbita
dai tessuti. In questo caso sia caricarla che recuperarla dal container è
un’operazione complessa, che necessita quantomeno di un magazzino chiuso e
un sacco di tempo a disposizione.
Il vantaggio è che spesso, anche se il container viene aperto e ispezionato, è
spesso impossibile trovare il carico illecito a meno di una soffiata. In questi casi
quasi sempre le aziende, o quanto meno alcuni dei loro magazzinieri, sono
conniventi. Ne abbiamo ad esempio parlato nella nostra inchiesta Banane e
cocaina, l’antica alleanza tra Clan del Golfo e ‘ndrangheta.
C’è poi invece la tecnica di rip-off dove la cocaina è nascosta in borsoni, tra la
merce, all’insaputa delle aziende che hanno contrattato il container per inviare e
ricevere merce. In questo caso il carico è facilmente individuabile all’apertura del
container.
Il rip-off sembra un metodo meno sicuro e certamente non è utilizzabile per
carichi troppo grandi (i borsoni possono contenere anche 25-50 kg di cocaina
l’uno, ma per un carico di quattro tonnellate sarebbero comunque troppi) ma ha
il vantaggio di non lasciare nessuna pista documentale, nessuna bolla
d’accompagnamento o indirizzo, che possa portare all’identificazione dei
trafficanti. Il rip-off conta però sulla connivenza sia di lavoratori delle banchine
del porto (che abbiano accesso ai moli) sia, soprattutto, di un qualche sistema di
infiltrazione nelle aziende che gestiscono i terminal.

Container nel porto di Genova all'omba della Lanterna
© Marco Bertorello

Queste aziende infatti sono quelle che producono (e sono le uniche ad avere) il
piano di scarico della nave: i container infatti sui moli vengono accatastati uno
sopra all’altro, raggiungendo anche i 5-6 piani. La porta, inoltre, non sempre è
accessibile, può essere infatti bloccata da un’altro container. Per poter effettuare
con successo il recupero di un carico inviato in rip-off quindi i trafficanti devono
assicurarsi che il loro container venga posizionato in modo accessibile.

Perchè il porto di Genova piace alle mafie
Prima di tutto, piace per l’alto numero di persone che lavorano nella struttura
portuale, circa 30 mila persone: rappresenta un aumento delle probabilità di
riuscire a corrompere camalli, o infiltrare proprie società all’interno delle attività
che avvengono nei terminal.
Un esempio su tutti quello di Massimo Rocca, broker per la ‘ndrangheta e
lavoratore portuale con la Culmv23, compagnia dei portuali di Genova, attiva nel
terminal di Spinelli. Rocca, come spiega Anna Sergi nel suo saggio The Port Crime
Interface, era fondamentale per conoscere gli orari di arrivo e la localizzazione
specifica dei container.
Genova poi piace a narcos che si devono occupare di logistica del traffico di
cocaina, perché è agilmente raggiungibile da location strategiche per gli affari e le
strette di mano tra gruppi di narcos, come Barcellona (vista la vicinanza
geografica), o città in Germania, Belgio e Olanda essendo posizionata su un “asse”
che va dai porti del Nord Europa come Rotterdam, Anversa e Amburgo fino alla
Liguria tagliando Lussemburgo, Svizzera, Piemonte.

Quando è iniziata l’infiltrazione
Secondo un ricercatore e attivista genovese di WikiMafia, Pietro Spotorno,
Genova diventa importante già a fine anni ‘90, quando i porti del Sud
iniziavano ad essere più controllati dalle forze di polizia e il narcotraffico, di
conseguenza, aveva bisogno di trovare nuovi scali. Spotorno scrive su Wall Out
Magazine che una prova ne sono le cinque tonnellate di cocaina sequestrate
proprio a Genova nel 1994 e importate da un cartello composto da colombiani,
siciliani e calabresi.
Ma Genova stessa è città di ‘ndrangheta, lo dice in modo chiaro, in una
intercettazione dell’indagine Crimine, Domenico Gangemi parlando con l’allora
reggente della ‘ndrangheta unitaria, il vecchio boss Domenico Oppedisano.
Gangemi, titolare di un ortofrutta, diventa capo locale in Liguria e parlando con
Oppedisano ricorda il legame indissolubile con la Calabria: «Siamo tutti una cosa,
quello che c’era qui [Calabria] lo abbiamo portato lì [in Liguria]. Tutti una cosa…
tutti calabresi».
A mettere le mani sul porto è la ‘ndrangheta ligure, ma anche quella di base in
Piemonte e Lombardia, ‘ndrine che da anni sono capisaldi del potere mafioso e
della gestione del narcotraffico nel mondo.
Come scrive Anna Sergi, quando si usa la tecnica del cosiddetto carico rip-on, le
famiglie piemontesi della ‘ndrangheta si trovano particolarmente bene a operare
su Genova perchè hanno facilità a trovare aziende conniventi di trasporto merci o
di ortofrutta, o ad aprirne alcune ad hoc.
Grazie al leak di #Narcofiles, abbiamo appreso come il metodo rip-on sia avvenuto
negli ultimi anni anche tramite aziende italiane dell’ortofrutta che operano al
mercato di Milano, mercato che in passato era stato infiltrato da alcune famiglie e
broker di ‘ndrangheta, secondo varie indagini. Basti pensare al narcotrafficante
Rocco Morabito, che ha iniziato proprio dal mercato della città meneghina per i
carichi di copertura, utilizzando come via per l’ingresso della cocaina anche
Genova. Un punto d’ingresso, Genova, che non è mai stato abbandonato da
Morabito, nonostante la lunga latitanza in America Latina. A confermarlo è stata
la recente indagine Eureka della Direzione distrettuale antimafia di Reggio
Calabria (2023). Stando alle accuse di Eureka, l’imprenditore Pietro Fotia attivo a
Savona, avrebbe incontrato a Genova i trafficanti di armi pakistani con cui il
gruppo Morabito voleva concludere un affare (kalashnikov da esportare in
Brasile).
Stando ai dati di #Narcofiles, a fine 2020 la polizia colombiana fermava al porto di
Cartagena oltre 500 chili di cocaina nascosta in macchinari per la produzione
della birra, diretti proprio al porto di Genova. Non è stato possibile appurare chi
fosse coinvolto, ma dalle note si evince che questo, come un altro enorme carico
fermato sempre a Cartagena due anni dopo e nascosto in casse di frutta, siano
solo la punta dell’iceberg di un florido traffico che dall’America Latina passa
anche dallo scalo ligure.
Le più recenti operazioni contro la ‘ndrangheta al porto di Genova sono di
febbraio 2023 e di aprile di quest’anno. Nella prima vengono fermati quattro
portuali, due dei quali precedentemente assunti a Gioia Tauro, e 435 chili di
cocaina, nascosti in 14 borsoni di caffè arrivati da Rio De Janeiro al porto di Prà
dalla portacontainer Msc Adelaide. Un viaggio particolare, nel corso del quale non
mancò un fatto di sangue: un marittimo morto in circostanze misteriose.
Nella seconda, invece, la Direzione distrettuale antimafia di Genova ha scoperto
un traffico di cocaina dal Sudamerica da parte di un’organizzazione
‘ndranghetistica armata fino ai denti, dai fucili d’assalto alle bombe a mano. Il
gruppo, legato ai Bellocco di Rosarno, aveva continuato a lavorare nonostante
molti di loro fossero stati arrestati nel 2015. Tra questi, anche un immobiliarista
genovese da anni trapiantato a Barranquilla, in Colombia.
Dal porto di Genova, e dai porti in generale, si snoda la base della logistica dei
narcotrafficanti della ‘ndrangheta. E noi torneremo a parlarne più volte in questa
newsletter, poiché se come diceva Giovanni Falcone a seguire i soldi si scovano
fortini e gerarchie, a seguire i container, e le navi, si trovano i flussi e gli accordi
internazionali delle mafie del Bel Paese.


Banane e cocaina, l’antica alleanza tra Clan del Golfo e ‘ndrangheta
La più longeva alleanza fra diverse mafie è quella fra il Clan del Golfo colombiano,
nato dagli ex-paramilitari delle AUC, e le ‘ndrine della Locride. Ancora oggi
trafficano coca usando le banane come copertura

https://irpimedia.irpi.eu/narcofiles-alleanza-clan-del-golfo-ndrangheta/

«Se c’è bisogno parlo con un amico mio e gli facciamo la festa se parla troppo». Il
messaggio è del 5 gennaio 2021, e passa per una chat criptata. Viene dal Brasile,
da quello che all’epoca era uno dei latitanti più ricercati del mondo, Rocco
Morabito. Il canale di comunicazione, che i partecipanti credono sicuro, è
dedicato all’organizzazione di una grossa importazione di cocaina dal porto di
Turbo (Colombia). Milioni di euro in ballo sia come investimento iniziale, che
come profitti promessi. Con queste cifre, e questi soggetti, è meglio non scherzare.
Specialmente quando poi le minacce vengono da uno come Rocco Morabito, uno
dei maggiori narcotrafficanti della ‘ndrangheta. Un nome di peso: broker
abilissimo, con alleanze storiche con le più potenti organizzazioni di narcos
dell’America Latina, dal Primeiro Comando da Capital in Brasile al Clan del Golfo
in Colombia, fino al cartello di Sinaloa in Messico. Ha contatti con trafficanti di
droga e armi in Medio Oriente, nonché entrature in tutti i porti d’Europa. Ma
soprattutto, lavora per uno dei più potenti clan di ‘ndrangheta di sempre, i
Morabito alias Tiradrittu di Africo, colonna portante del mandamento Ionico della
‘ndrangheta. Insomma, essere minacciati da Tamunga, nomignolo che origina
dalla sua passione per un vecchio fuoristrada tedesco, il Munga della Dkw, non è
cosa da prendere alla leggera. La ‘ndrangheta però, la violenza la usa solo quando
strettamente necessaria, e la maggior parte delle volte basta il nome a risolvere gli
screzi. Da Belo Horizonte a Antioquia, dei Morabito basta l’eco.
L’inchiesta in breve
L’alleanza tra paramilitari di Urabá, in Colombia, e la ‘ndrangheta calabrese inizia
più di trent’anni fa ma resta solidissima. Cambiano i nomi delle organizzazioni,
ma restano saldi gli affari che riempiono l’Europa di cocaina
Le indagini Eureka e Tre Croci hanno dimostrato come due dei narcotrafficanti
più pericolosi e legati al clan Morabito di Africo abbiano trafficato nel 2020 e 2021
tonnellate di cocaina acquistate dal Clan del Golfo e partite dal porto di Turbo
Tra i broker che hanno lavorato con il Clan del Golfo ci sono Rocco Morabito,
all’epoca latitante in Brasile, e Bartolo Bruzzaniti, all’epoca basato in Costa
d’Avorio. Entrambi prediligevano lavori “ditta su ditta”, utilizzando carichi di
banane per nascondere la polvere bianca
Incrociando i dati del leak della Procura Generale Colombiana ottenuti da
#NarcoFiles con fonti open source in Colombia e Europa, IrpiMedia con Occrp e
Voragine ha potuto dimostrare come alcuni dei principali carichi organizzati dai
broker della ‘ndrangheta di Africo viaggiavano in carichi di banane dell’azienda
Banacol
L’azienda non risulta essere stata indagata, forse anche per difficoltà oggettive
non essendo al momento possibile capire chi siano i titolari effettivi, protetti
dietro giurisdizioni offshore come il Belize
Le banane di Banacol sono distribuite da Dole in tutta Europa. In Italia possono
essere trovate in molti dei maggiori supermercati come Lidl, Coop, Esselunga
È un’eco che origina da un’alleanza stretta più di trent’anni fa, forse il primo
“super-cartello” della storia della criminalità organizzata. Lo testimonia Salvatore
Gomez Mancuso detto El Mono (il biondo), capo delle ormai sciolte Autodefensas
Unidas de Colombia, uno dei maggiori gruppi paramilitari del Paese, in un
interrogatorio svoltosi nel 2019 ad Atlanta (Stati Uniti) alla presenza anche della
Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Caduti gli storici cartelli di
Medellin e di Cali, le AUC erano diventate i maggiori produttori di cocaina al
mondo. Fra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio hanno
rapporti con i più abili broker della ‘ndrangheta quali Santo Scipione (basato
proprio a Medellin fino alla recente morte nel 2019), Roberto Pannunzi e Natale
Scali.
Racconta Mancuso che all’inizio del millennio le ‘ndrine del mandamento ionico,
ovvero quelle di Platì, San Luca e Africo, assieme ai Mancuso di Limbadi, vogliono
creare un’alleanza speciale tra loro e i paramilitari delle AUC. Natale Scali viene
mandato come ambasciatore: i calabresi chiedono di poter avere l’esclusiva per il
mercato europeo di tutta la coca prodotta dalle AUC. L’accordo non viene
finalizzato, perché i paramilitari preferiscono avere «mano libera sulla scelta degli
acquirenti», ma la ‘ndrangheta verrà comunque trattata con un occhio di
riguardo.
NarcoFiles: il nuovo ordine criminale
NarcoFiles è la più vasta inchiesta giornalistica sul narcotraffico mai realizzata.
Inizia con l’accesso a un leak di e-mail senza precedenti dall’Ufficio della Procura
Generale della Colombia. I dati sono stati consegnati dagli hacker ai centri di
giornalismo e media Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp),
Centro Latinoamericano de Investigación Periodística (CLIP), Vorágine e
Cerosetenta / 070. All’inchiesta hanno lavorato più di 40 media e giornalisti di 23
Paesi in America Latina, Europa e Stati Uniti. A partire dagli indizi trovati
all’interno del leak, e sviluppando i temi incrociando i dati con ricerche
indipendenti, i giornalisti del consorzio hanno portato avanti decine di inchieste
che rivelano i diversi modi in cui i gruppi di criminalità organizzata si evolvono, si
espandono e sperimentano nel mondo di oggi, mietendo nuove vittime lungo il
percorso
È grazie a questo patto che Rocco Morabito, rimasto latitante in America Latina
dal 1994 fino al 2017, e poi ancora dalla sua evasione di galera nel 2019 fino
all’arresto definitivo a maggio 2021, ha esportato per trent’anni cocaina
colombiana lavorando sia dalla Colombia che dal Brasile. Dopo essere riuscito a
fuggire dal carcere di Montevideo, si era rimesso subito al lavoro, restando
nascosto in Brasile. In quel periodo, svela la recente indagine Eureka, si sarebbe
avvalso della collaborazione di un parente letteralmente dall’altra parte del
mondo, in Costa d’Avorio. Si tratta di Bartolo Bruzzaniti, che aveva fatto di
Abidjan la propria casa.
Nell’indagine Eureka sono confluiti vari filoni, portati avanti dalla Direzione
Distrettuale Antimafia (Dda) di Reggio Calabria, dalla Dda di Milano e dalla Dda
di Genova. L’insieme di questi filoni, ha aiutato i giornalisti di #NarcoFiles a
ricostruire questa storia. IrpiMedia ha provato a contattare i legali sia di
Bruzzaniti che di Morabito, ma senza ricevere risposte.

Bartolo Bruzzaniti, imprenditore in Costa d’Avorio
Bruzzaniti è una vecchia conoscenza di IrpiMedia. Nel 2015, pubblicati
da l’Espresso, avevamo scritto come Bruzzaniti avesse scontato una
condanna per narcotraffico in modo particolare. Bruzzaniti infatti, nel
novembre 2011, comincia a scontare le pene alternative al carcere come
impiegato in un’azienda di biocarburanti di proprietà della moglie. Poco
dopo, un’azienda di biocarburanti del vercellese (implicata nello scandalo
rifiuti Ama in Senegal) contratta Bruzzaniti per gestire una fabbrica di
olio di palma di Dabou, a 50 km da Abidjan. In Costa d’Avorio Bruzzaniti
ci si trasferisce con tutta la famiglia, apre una succursale dell’azienda di
biocarburanti e con il fratello Antonio apre anche una import-export e la
catena di ristoranti Pasta & Pizza, gestita poi dal fratello assieme ad un
libanese. Quest’ultimo è stato accusato, a giugno 2022, di far parte di
un gruppo di imprenditori che, con la complicità di attori istituzionali,
avrebbe importato in Costa d’Avorio due tonnellate di cocaina,
sequestrate ad aprile 2022. Un anno dopo, a luglio 2023, Bruzzaniti è
stato arrestato proprio in Libano.

Come hanno ricostruito i carabinieri di Locri, a marzo 2020 Bartolo Bruzzaniti
viene invitato da Rocco Morabito a partecipare all’organizzazione di carichi di
cocaina nascosti in banane da Turbo. Sul tavolo, Bruzzaniti deve portare i suoi
contatti al porto di Gioia Tauro, Tamunga quelli con il Clan del Golfo. Non è
semplice però per Morabito andare di persona in Colombia, del resto è uno degli
uomini più ricercati al mondo. Si appoggia quindi a un gruppo serbo di fiducia,
che a Medellin può garantire economicamente per lui. A dirigere il gruppo è Srdan
Durasovic, un fedele collaboratore di Morabito che per lui mantiene i contatti con
i fornitori colombiani. Ma Durasovic è molto di più di un tramite: secondo gli
inquirenti è stato un vero socio e basista per la fuga di Tamunga, sia
nascondendolo nel suo ristorante italiano di Montevideo, sia ricevendo i fondi per
la latitanza da parte dei parenti calabresi, compreso lo stesso Bruzzaniti.
Il contatto dentro il Clan del Golfo portato da Durasovic, è invece un tale Peke
Negro. «Rappresenta i paramilitari, fa i lavori per loro, controlla i porti», scrive
Durasovic ai soci calabresi, aggiungendo: «Hanno la fabbrica, comandano a
Turbo». Peke Negro parla direttamente coi calabresi, in chat. A loro racconta di
avere una «finca» (fattoria, per la coltivazione della coca) e una «raffineria», e
manda foto di piante di coca e del processo di raffinazione della pasta base. Peke
Negro interviene anche sulla logistica, suggerisce di importare usando lo schermo
di una spedizione legale fra due aziende sotto il loro controllo: «Ditta a ditta» la
definisce, e per quanto riguarda quella europea da usare è «meglio se compra già
in Colombia, banane», ottime quelle bio raw.

Foto del porto di Turbo (Colombia), snodo cruciale per il trasporto su acqua dei prodotti Banacol. L’autorità portuale di Turbo
controlla anche i piccoli porti fluviali di Zungo e Nueva Colonia, entrambi gestiti da Banacol
Le conversazioni però, che avvenivano tutte cifrate sul sistema SkyEcc, si
interrompono. Per gli inquirenti diventa così impossibile tracciare le spedizioni
precise importate dall’alleanza Bruzzaniti-Tamunga, che con tutta probabilità
sono finite per arrivare in Europa con successo, contribuendo a rafforzare
l’alleanza e la ricchezza dei clan.
L’unica traccia che lega nuovamente Turbo ai serbi e al gruppo di Tamunga arriva
un anno, e vari cambi di cellulari cifrati, più tardi. I narcos calabresi questa volta
sono in contatto con un nuovo gruppo di serbi a cui Tamunga è arrivato grazie a
un narcotrafficante «giordano» detto «Don Ciccio» che il serbo descrive come
«quello arrestato in Turchia». Secondo l’analisi di IrpiMedia, si tratterebbe di
Waleed Issa Khamays, arrestato proprio in Turchia nel 2020. Quest’ultimo ha
lavorato per oltre 30 anni fianco a fianco a Tamunga, prima da Milano e poi dal
Brasile, facendo da cardine tra la ‘ndrangheta e il Primeiro Comando da Capital.

Duemila chili di cocaina nelle banane Banacol
Oggi, come Morabito, anche Bruzzaniti è stato preso. Solo 4 mesi fa a Jounieh, in
Libano, è stato arrestato mentre era a cena in un ristorante di lusso. Le indagini
Tre Croci della Guardia di Finanza Gruppo di Gioia Tauro e Eureka poi, ne
tratteggiano un profilo da instancabile narcotrafficante, che gestisce una miriade
di comunicazioni in contemporanea: con i portuali a Gioia Tauro, con i fornitori
sudamericani, e con il fratello in Costa d’Avorio. Scrive in quattro lingue, italiano,
spagnolo, francese e inglese. E spesso lavora anche di notte, «la notte la faccio
giorno» dice, per assicurarsi che i carichi vengano organizzati bene dall’altra parte
del mondo, in Colombia. Viene da Africo, nella Locride, ma tratta con tutti e si
allea anche con il potente broker della Camorra Raffaele Imperiale (attivo in
Olanda all’epoca). Non ci sono confini, geografici o culturali che siano. E questo
suo savoir-faire gli vince il contatto con la più forte squadra di portuali corrotti di
Gioia Tauro, che conta tra le file anche un doganiere.
Lo ha scoperto la prima indagine sulle squadre di portuali corrotti, Tre Croci
appunto, che grazie alle chat di SkyEcc ha ricostruito il dietro le quinte delle
grandi spedizioni di cocaina della ‘ndrangheta che dall’America Latina entrano a
Gioia Tauro. Tra queste, la più significativa è proprio un carico del gruppo
Bruzzaniti-Imperiale. Il container, sequestrato il 18 marzo 2021, conteneva
banane dell’azienda Banacol e 2.226 chili di cocaina purissima. Il consorzio
#NarcoFiles lo ha potuto confermare confrontando e incrociando informazioni del
leak e informazioni contenute nelle misure cautelari del Tribunale di Reggio
Calabria.
Banacol è il quarto maggior esportatore di banane colombiane, con sede a
Medellin, nella regione di Urabá, dove si coltivano la maggior parte delle banane
del Paese. È un’azienda enorme, con un intero scalo portuale privato presso il
porto fluviale di Zungo e Antioquia, vicino a Turbo. Ha anche una struttura
societaria particolarmente complessa e in continuo divenire ma sempre
caratterizzata da una totale segretezza sugli azionisti della società. Quel che è
certo, è che i manager Banacol hanno avuto comprovati rapporti con i
paramilitari delle AUC in passato, e che alcuni container con banane spediti
dall’azienda negli ultimi 14 anni sono stati sequestrati perché pieni di cocaina.


«Gli approdi fluviali di Zungo e Nueva Colonia fanno parte del porto di Turbo, e
sono completamente gestiti da Banacol e da un’altra azienda di banane. Sugli
imbarcaderi ci sono i magazzini con le scatole di banane pronte a essere caricate,
e appena dietro agli imbarcaderi, le piantagioni. E sono porti facili da usare per
chi ha già infiltrato la filiera delle coltivazioni di banane. Da lì i container vengono
portati con delle chiatte fino in alto mare e lì vengono issati sulle portacontainer
che aspettano in rada», spiega a IrpiMedia una fonte di polizia che ha indagato
per anni sul narcotraffico in Urabá. «A Medellin, dove c’è la sede Banacol, non c’è
nemmeno un vero e proprio ufficio logistico».
Una logistica complicata
È Bruzzaniti a tirare le fila dell’importazione della Colombia. Siamo agli inizi
dell’avventura, e Bruzzaniti ha novità, ha trovato il contatto colombiano giusto
per inviare grossi carichi usando la modalità ditta su ditta, considerata più sicura
del “rip off” (ovvero borsoni nascosti nel container). Riferisce a Imperiale di avere
inserito una nuova persona nella squadra, che dalla Colombia organizzerà per
loro le spedizioni. «Compa abbiamo anche questa diretta da Turbo ma devo capire
bene adesso. Quello che abbiamo messo in squadra si è sbilanciato ma sembra
sicuro di quello che dice» e ovvero che ha l’entratura giusta e la cocaina si
sarebbe caricata presso il «magazzino Cabana gruppo Dole».
In una immagine che uno dei portuali corrotti inviava ai complici, si possono
vedere chiaramente le istruzioni arrivate (via Bruzzaniti) sul «magazzino che
carica per noi» cioè il deposito compiacente che avrebbe consentito loro di
occultare il carico di droga. Dall’immagine, si capisce tramite il codice EAN che si
tratta di banane Banacol, che ha il codice 14071 (40 iniziale sta per Colombia).

Indicazioni su dove disporre le casse di banane contenenti i panetti di cocaina all’interno del container.
Immagine estratta dall’ ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria

Le istruzioni inviate da uno dei portuali corrotti ai sodali in merito al carico di banane in arrivo a Gioia Tauro.
Immagine estratta dall’ ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria

Panetti di cocaina adagiati sul fondo di una cassa di banane, pronti per essere coperti con la frutta.
Immagini estratte dall’ ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria
A questo punto, alla squadra di portuali calabresi, veniva inviata una foto che
mostrava come sarebbero stati nascosti i panetti di cocaina tra le banane, e come
poi posizionare il tutto nei container. I portuali, dal canto loro, mandavano degli
schemi su come posizionare le casse all’interno del container, affinché a Gioia
Tauro potesse passare senza problemi.
Le chat cifrate tra i portuali e Bruzzaniti permettono davvero di immergersi nel
mondo dei narcotrafficanti internazionali. I portuali inviano al broker un esempio
di container di banane che arrivavano a Gioia Tauro e che non vengono mai
controllate (nemmeno con controllo sanitario), tutti con sigilli Banacol. Secondo le
indicazioni del doganiere, sarebbero serviti dei container identici per inviarele due
tonnellate di Bruzzaniti.
Il 23 dicembre 2020 Bruzzaniti spinge per partire, e chiede ai portuali di Gioia
Tauro se sono pronti: «Cumpa cortesemente fatemi sapere se procediamo per
altro lavoro che è tutto pronto per domani». Bruzzaniti vuole dividere i 2.000 chili
in due container da far viaggiare in contemporanea, ma il doganiere a Gioia Tauro
lo sconsiglia. O uno solo, o due in due momenti diversi. Bruzzaniti spiega però
che la sua organizzazione ha il permesso di spedire la cocaina dal porto di Turbo
solamente in quella specifica settimana, e per questo non avrebbero potuto
frazionare la partita in due momenti diversi. Secondo gli inquirenti, questo
elemento suggerisce che l’organizzazione di Bruzzaniti avesse «una sorta di
“lasciapassare” dai cartelli che controllavano lo scalo portuale di Turbo, utile a
servirsi di quell’area per l’intera settimana», come se il Clan del Golfo preveda
delle finestre di tempo specifiche per ogni cliente o socio.
Per approfondire #NarcoFiles

La culla del potere dei narcos. Il matrimonio fra latifondo bananiero e
paramilitari
IrpiMedia, Voragine

A Gioia Tauro, nel frattempo, i portuali sono preoccupati per via dei molti
sequestri che si stanno facendo al loro scalo. Secondo loro ci sono «troppe
persone che mandano qua [a Gioia Tauro]». L’affollamento dei carichi su questa
rotta è un problema anche per i trafficanti stessi. Bruzzaniti asserisce che
«abbiamo anche cercato di stoppare i piccoli ma è un fiume in piena». Con i
portuali di Gioia Tauro concordano che «gli albanesi sono dei kamikaze» perchè
usano la modalità «rip off» e quindi i carichi rischiano di più, mentre la modalità
usata da Bruzzaniti a Turbo, sarebbe stata sicura.
Commentando i sequestri avvenuti, Bruzzaniti spiega che al porto di Turbo gli
unici affidabili sono coloro che trattano da duemila chili in sù. «Compà con gente
apposto da lì non partono 500/1000 dovete parlare di duemila in su». Mentre gli
altri si «vendono a vicenda», questi secondo Bruzzaniti “controllano” il porto di
Turbo, che, anche per lui evidentemente «è casa nostra [..] sono amici da 25
anni».
La spedizione, probabilmente a causa delle preoccupazioni sui sequestri, viene
rinviata ancora. Due mesi dopo, a febbraio 2021, il problema dei controlli appare
invece sul lato Colombiano. Bruzzaniti e Imperiale hanno appena ricevuto un
messaggio dal loro contatto a Turbo, e devono valutare come procedere. La polizia
sta controllando l’80% dei container e ci sono stati sequestri. In più, dice il
contatto, «ci sono altri due gruppi che hanno chiesto di usare la stessa impresa»,
ma “gli amici” hanno detto di no perché preferiscono lavorare con Bruzzaniti e
Morabito.
Finalmente, il 23 febbraio 2021 il contatto colombiano fa sapere che a Turbo sono
pronti, e che adesso serve solo portare i soldi da Medellin per pagare chi ha
organizzato il carico.
Il colombiano chiede poi a Imperiale se vogliono fare lavori su Rotterdam dove
loro hanno ottime entrature. «Abbiamo un ottimo sistema ditta su ditta» dice,
«abbiamo la frutta di Dole sulle navi di Dole. Abbiamo un controllo molto buono:
possiamo mandare pedane dove vogliamo e loro controllano solo il 5% delle
pedane». Il sistema però è riservato ad acquirenti grossi: « Il minimo è 4
tonnellate» spiega.

Un murales dedicato a Pablo Escobar a a Medellin (Colombia) © Raul Arboleda/Getty


Armi e 500 Kg di cocaina sequestrati dalla polizia colombiana a Medellin (Colombia) nel 2008 © Raul Arboleda/Getty
Due giorni dopo Mario comunica che «il lavoro è fatto», ovvero il container è stato
“contaminato” (ovvero la cocaina è stata nascosta tra le banane), e che la nave è
pronta a partire.
Il carico, che viaggia sul container SZLU9126219, un refrigerato da 40 piedi,
parte da Turbo per giungere a Gioia Tauro diretto a una ditta di frutta esotica di
Catania. La cocaina dovrà essere poi recuperata dai portuali corrotti, a Gioia
Tauro.
Mentre il container è in viaggio però, l’8 marzo 2021, i narcos vengono a sapere
che SkyEcc – il sistema di telefoni cifrati che utilizzavano fino a quel momento –
era stato hackerato dalla polizia. I trafficanti, immediatamente, spariscono.
Arrivato al porto, il container non viene toccato. «Si può quindi ipotizzare che i
sodali abbiano deliberatamente scelto di sospendere l’attività, evitare il
coinvolgimento del funzionario doganale infedele e – di fatto – abbandonare il
container appena sbarcato al proprio destino», scrive il giudice per le indagini
preliminari nella richiesta di misure cautelari.
Banacol, dal 2009
Secondo le liste di sequestri che #NarcoFiles ha potuto visionare, inoltre, almeno dal 2009 le
autorità colombiane hanno effettuato sequestri di cocaina nascosta in spedizioni in partenza dalle
banchine Banacol. In una recente rogatoria internazionale presentata dalla Procura colombiana alle
autorità italiane si legge che «attraverso le esportazioni effettuate dalla C.I. Banacol s.a.s. mediante
spedizioni di frutta, dal 2014 circa, sostanza stupefacente “cocaina” è stata trasportata in diversi
Paesi europei, tra cui l’Italia». Dall’analisi di documenti allegati, emerge che due container di
banane spediti da Banacol a Dole Europe sono stati sequestrati al porto di Gioia Tauro nel
novembre 2019, a una settimana di distanza l’uno dall’altro, entrambi carichi di polvere bianca.
Secondo la rogatoria, la droga, era destinata alla ‘ndrangheta.
Non c’è alcuna prova che Banacol sia a conoscenza della cocaina nascosta tra i carichi delle proprie
banane. Tuttavia è fuor di dubbio che le banchine dell’azienda a Turbo siano uno dei porti
d’imbarco più presi di mira dai trafficanti colombiani. Nel 2020, l’autista di un camion è stato
fermato con quasi 300 chili di cocaina nascosta negli scatoloni delle banane «al molo del Terminal
Portuale n. 2 di Urabá (controllato dalla società esportatrice di banane “Banacol”», si legge in
un’informativa della polizia giudiziaria colombiana. Nello stesso anno, una fonte di polizia riferisce
di essere stato «avvicinato dalle forze di pubblica sicurezza e dal personale esterno del porto di
Urabá Banacol affinché collaborasse con il gruppo criminale che cerca di portare i narcotici nei
container, contaminando il carico di banane legali che parte per i porti europei».



Il monitoraggio e i controlli al porto di Gioia Tauro, dove arrivavano i container
con banane e cocaina del gruppo di Bartolo Bruzzaniti, da parte della Guardia di
finanza
I tentativi di infiltrare spedizioni legittime non avvengono solo sulle banchine. Nel
2019, durante un controllo a un container su una nave alla fonda nel porto di
Bahia Colombia, la Guardia Costiera apre un container già chiuso dal sigillo
dell’azienda proprietaria della merce, Banacol. All’interno, accanto agli scatoloni
di banane, ci sono tre panetti di cocaina e un sigillo di sicurezza esattamente
identico e con lo stesso numero di quello appena aperto per entrare nel container.
Segno che dopo che le banane erano state caricate e il container sigillato da
Banacol, qualcuno, in possesso di un sigillo contraffatto, era entrato, aveva
caricato la cocaina, e poi aveva richiuso il container.
«Le banane sono fondamentali per spedire la cocaina perché sotto lo scanner
doganale questa si confonde molto bene con le scatole di banane. Per questo
motivo, i trafficanti tendono a non utilizzare altre merci, come il legname, dove la
cocaina è più facile da individuare», spiega a IrpiMedia una fonte esperta di porti.
A utilizzare certamente Banacol negli anni sono stati anche altri broker della
‘ndrangheta. A febbraio 2011, il famoso narcotrafficante si San Luca Bruno
Pizzata, organizzava proprio con i paramilitari del Clan del Golfo una spedizione
di banane e cocaina da Turbo. Il container era stato inviato da Banacol, aveva
fatto tappa a Santa Marta, e aveva proseguito fino a Anversa. Alcuni anni dopo,
nel 2016, gli Aquino di Maasmechelen hanno ricevuto carichi di cocaina in
banane Banacol al porto di Anversa. Una pratica, quella di usare carichi di
banane di Urabá, che gli Aquino hanno proseguito fino almeno a gennaio 2022,
anche se non è stato possibile ricostruire con certezza quali aziende bananiere
siano legate ai carichi post 2016.
Gli Aquino sono una famiglia di narcotrafficanti di origine calabrese basata in
Belgio, a Maasmechelen, che lungo il confine Belgio-Olanda ha creato un impero
del narcotraffico.
Nell’ambito di un’indagine della procura federale del Limburgo, a fine settembre
2020 viene arrestato Lucio Aquino, il secondo di sei fratelli, con l’accusa di aver
importato quasi sette tonnellate di cocaina sequestrate presso il porto di Anversa
a ottobre del 2019. Il carcere però non ferma Aquino, che dalla cella mantiene i
contatti grazie ad un criptofonino. Di queste sette tonnellate, al momento non si
può sapere di più perché le indagini continuano. Ma stando alle prime misure
cautelari, Aquino sarebbe stato in contatto diretto con i paramilitari del Clan
Golfo. In una chat, parlando dei rapporti mantenuti con i fornitori di cocaina
colombiani, Aquino dice «Sono colombiani del clan del Golfo, Enrique è il padrone
(…) lo conosciamo in persona noi». In un’ altra chat, uno dei fornitori chiarisce la
sua appartenenza: «La famiglia di mia moglie sono del clan del Golfo (…)
mandano per la costa di Panama da tutti i lati (…) Turbo è la nostra casa».
Il peso sociale del traffico di cocaina da Clan del Golfo a ‘ndrangheta
Grazie alle indagini della Procura colombiana e di alcune procure italiane come
Reggio Calabria, Milano e Genova si è riusciti ad analizzare almeno la punta
dell’iceberg del traffico che unisce la Colombia, e in particolare la zona di Urabá,
alla ‘ndrangheta. In molti casi, i trafficanti sono riusciti a portare a buon fine
l’operazione di import-export e non si è pertanto riusciti ad avere informazioni
precise sul numero di container, sulle aziende utilizzate per i carichi di copertura
e su tutti gli attori coinvolti. Ma c’è un pattern che unisce una serie di
esportazioni organizzate da gruppi diversi, hanno tutte in comune tre elementi:
l’alleanza ormai trentennale tra paramilitari di Urabá e ‘ndrangheta, l’uso di
tecnologia di criptazione, le aziende bananiere di Urabá come spedizioniere.
Dei moltissimi carichi di cocaina nascosti in carichi di banane di Urabá e arrivati
a Gioia Tauro o altri porti italiani e europei, solo una piccolissima parte viene
sequestrata. Ma i numeri, sempre in crescita, dei sequestri danno un idea di
quanto il traffico sia ampio.
A Gioia Tauro «dal 2020 ci sono stati circa 150 sequestri e da gennaio 2021 a
settembre 2023 sono state sequestrate oltre 38 tonnellate di cocaina», ha spiegato
a IrpiMedia il Procuratore Capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio
Calabria, Giovanni Bombardieri.
Ma è una goccia nell’oceano. Sono moltissimi i carichi di cocaina che riescono
comunque a passare, e che finiscono nelle mani delle ‘ndrine calabresi che
distribuiscono lo stupefacente in tutta Europa. Migliaia di chili di cocaina, che
corrispondono a milioni di euro guadagnati ogni mese, miliardi e miliardi ogni
anno. Facendo un rapido calcolo, solo i 2.226 chili di cocaina trafficati da
Bruzzaniti con il container spedito da Banacol, avrebbero fruttato 66 milioni di
euro per la ‘ndrangheta, a fronte di un investimento di circa sei milioni. Enormi
profitti che si muovono sotto traccia: una parte torna in America Latina per
pagare altri carichi, mentre una parte entra nel sistema economico europeo,
tramite il riciclaggio di capitali nella finanza, nell’immobiliare, nell’imprenditoria e
nella corruzione delle istituzioni. Le conseguenze sociali sono pesantissime, per
quanto difficili da tratteggiare, sia in Europa che in Colombia.