Documento

Documento, updated 12/18/18, 7:55 AM

categoryOther
visibility227
  verified

About Rete Ambientalista Al

Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza

Tag Cloud

GUENTHER ANDERS: TESI SULL'ETA' ATOMICA
Riprendiamo il testo dall'appendice all'edizione italiana del libro di Guenther Anders, Der
Mann auf der Brueke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, apparso col titolo Essere o
non essere, presso Einaudi, Torino 1961, nella traduzione di Renato Solmi (questo
maestro grande e generoso che cogliamo l'occasione per salutare e ringraziare ancora
una volta). Come li' si specifica, queste Tesi sull'eta' atomica sono "un testo improvvisato
dall'autore dopo un dibattito sui problemi morali dell'eta' atomica organizzato da un gruppo
di studenti dell'Universita' di Berlino-Ovest, e uscito nell'ottobre 1960 nella rivista 'Das
Argument - Berliner Hefte fuer Politik und Kultur' - nota del traduttore".
Guenther Anders (pseudonimo di Guenther Stern, "anders" significa "altro" e fu lo
pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli chiesero di non comparire col suo
vero cognome) e' nato a Breslavia nel 1902, figlio dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, fu
allievo di Husserl e si laureo' in filosofia nel 1925. Costretto all'esilio dall'avvento del
nazismo, trasferitosi negli Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri. Tornato in
Europa nel 1950, si stabili' a Vienna. E' scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato
contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, e' uno dei maggiori
filosofi contemporanei; e' stato il pensatore che con piu' rigore e concentrazione e tenacia
ha pensato la condizione dell'umanita' nell'epoca delle armi che mettono in pericolo la
sopravvivenza stessa della civilta' umana; insieme a Hannah Arendt (di cui fu coniuge), ad
Hans Jonas (e ad altre e altri, certo) e' tra gli ineludibili punti di riferimento del nostro
riflettere e del nostro agire. Opere di Guenther Anders: Essere o non essere, Einaudi,
Torino 1961; La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e
di Guenther Anders, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d'ombra, Milano 1992 (col titolo: Il
pilota di Hiroshima ovvero: la coscienza al bando); L'uomo e' antiquato, vol. I (sottotitolo:
Considerazioni sull'anima nell'era della seconda rivoluzione industriale), Il Saggiatore,
Milano 1963, poi Bollati Boringhieri, Torino 2003; L'uomo e' antiquato, vol. II (sottotitolo:
Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale), Bollati Boringhieri,
Torino 1992, 2003; Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'ombra, Milano 1990;
Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli 1991; Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze
1995; Stato di necessita' e legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di
Fiesole (Fi) 1997. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989; Uomo
senza mondo, Spazio Libri, Ferrara 1991; Patologia della liberta', Palomar, Bari 1993;
Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004; L'odio e' antiquato, Bollati Boringhieri, Torino
2006; Discesa all'Ade, Bollati Boringhieri, Torino 2008. In rivista testi di Anders sono stati
pubblicati negli ultimi anni su "Comunita'", "Linea d'ombra", "Micromega". Opere su
Guenther Anders: cfr. ora la bella monografia di Pier Paolo Portinaro, Il principio
disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003; singoli saggi
su Anders hanno scritto, tra altri, Norberto Bobbio, Goffredo Fofi, Umberto Galimberti; tra
gli intellettuali italiani che sono stati in corrispondenza con lui ricordiamo Cesare Cases e
Renato Solmi.
Renato Solmi e' stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha introdotto in Italia opere
fondamentali della scuola di Francoforte e del pensiero critico contemporaneo, e' uno dei
maestri autentici e profondi di generazioni di persone impegnate per la democrazia e la
dignita' umana, che attraverso i suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte
della propria strumentazione intellettuale; impegnato nel Movimento Nonviolento del
Piemonte e della Valle d'Aosta, e' deceduto il 25 marzo 2015. Dal risvolto di copertina del
recente volume in cui sono raccolti taluni dei frutti maggiori del suo magistero riprendiamo
la seguente scheda: "Renato Solmi (Aosta 1927) ha studiato a Milano, dove si e' laureato
in storia greca con una tesi su Platone in Sicilia. Dopo aver trascorso un anno a Napoli
presso l'Istituto italiano per gli studi storici di Benedetto Croce, ha lavorato dal 1951 al
1963 nella redazione della casa editrice Einaudi. A meta' degli anni '50 ha passato un
periodo di studio a Francoforte per seguire i corsi e l'insegnamento di Theodor W. Adorno,
da lui per primo introdotto e tradotto in Italia. Dopo l'allontanamento dall'Einaudi, ha
insegnato per circa trent'anni storia e filosofia nei licei di Torino e di Aosta. E' impegnato
da tempo, sul piano teorico, e da un decennio anche su quello della militanza attiva, nei
movimenti nonviolenti e pacifisti torinesi e nazionali. Ha collaborato a numerosi periodici
culturali e politici ("Il pensiero critico", "Paideia", "Lo Spettatore italiano", "Il Mulino",
"Notiziario Einaudi", "Nuovi Argomenti", "Passato e presente", "Quaderni rossi", "Quaderni
piacentini", "Il manifesto", "L'Indice dei libri del mese" e altri). Fra le sue traduzioni - oltre a
quelle di Adorno, Benjamin, Brecht (L'abici' della guerra, Einaudi, Torino 1975) e Marcuse
(Il "romanzo dell'artista" nella letteratura tedesca, ivi, 1985), che sono in realta' edizioni di
riferimento - si segnalano: Gyorgy Lukacs, Il significato attuale del realismo critico (ivi,
1957) e Il giovane Hegel e i problemi della societa' capitalistica (ivi, 1960); Guenther
Anders, Essere o non essere (ivi, 1961) e La coscienza al bando (ivi, 1962); Max
Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo (ivi, 1966 e 1980); Seymour
Melman, Capitalismo militare (ivi, 1972); Paul A. Baran, Saggi marxisti (ivi, 1976); Leo
Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918 (Boringhieri, Torino 1976)". Opere
di Renato Solmi: segnaliamo particolarmente la sua recente straordinaria Autobiografia
documentaria. Scritti 1950-2004, Quodlibet, Macerata 2007]
Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, e' cominciata un
nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la
terra intera, in un'altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma
potendo essere distrutti ad ogni momento, cio' significa anche che da quel giorno siamo
totalmente impotenti. Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata,
quest'epoca e' l'ultima: poiche' la sua differenza specifica, la possibilita'
dell'autodistruzione del genere umano, non puo' aver fine - che con la fine stessa.
*
Eta' finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come "dilazione"; siamo quelli-
che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla
domanda "Come dobbiamo vivere?" si e' sostituita quella: "Vivremo ancora?". Alla
domanda del "come" c'e' - per noi che viviamo in questa proroga - una sola risposta:
"Dobbiamo fare in modo che l'eta' finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine
dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo". Poiche'
crediamo alla possibilita' di una "fine dei tempi", possiamo dirci apocalittici; ma poiche'
lottiamo contro l"apocalissi da noi stessi creata, siamo (e' un tipo che non c'e' mai stato
finora) "nemici dell'apocalissi".
*
Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella situazione atomica.
La tesi apparentemente plausibile che nell'attuale situazione politica ci sarebbero (fra
l'altro) anche "armi atomiche", e' un inganno. Poiche' la situazione attuale e' determinata
esclusivamente dall'esistenza di "armi atomiche", e' vero il contrario: che le cosiddette
azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
*
Non arma ma nemico. Cio' contro cui lottiamo, non e' questo o quell'avversario che
potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in se'.
Poiche' questo nemico e' nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora
come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e
manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la
pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.
*
Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers fino a Strauss
suona: "La minaccia totalitaria puo' essere neutralizzata solo con la minaccia della
distruzione totale". E' un argomento che non regge. 1) La bomba atomica e' stata
impiegata, e in una situazione in cui non c'era affatto il pericolo, per chi la impiego', di
soccombere a un potere totalitario. 2) L'argomento e' un relitto dell'epoca del monopolio
atomico; oggi e' un argomento suicida. 3) Lo slogan "totalitario" e' desunto da una
situazione politica, che non solo e' gia' essenzialmente mutata, ma continuera' a cambiare;
mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita' di trasformazione. 4) La minaccia della
guerra atomica, della distruzione totale, e' totalitaria per sua natura: poiche' vive del ricatto
e trasforma la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse della
liberta', l'assoluta privazione della stessa, e' il non plus ultra dell'ipocrisia.
*
Cio' che puo' colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non badano alle
pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Cosi', nell'eta' finale, non ci sono piu'
distanze. Ognuno puo' colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo
restare moralmente indietro agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo
ignominia mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l'orizzonte di cio'
che ci riguarda, e cioe' l'orizzonte della nostra responsabilita', coincida con l'orizzonte
entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioe' che diventi anch'esso globale. Non
ci sono piu' che "vicini".
*
Internazionale delle generazioni. Cio' che si tratta di ampliare, non e' solo l'orizzonte
spaziale della responsabilita' per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiche' le
nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni
venture, anch'esse rientrano nell'ambito del nostro presente. Tutto cio' che e' "venturo" e'
gia' qui, presso di noi, poiche' dipende da noi. C'e', oggi, un'"internazionale delle
generazioni", a cui appartengono gia' anche i nostri nipoti. Sono i nostri vicini nel tempo.
Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la
nostra cadono anche le case non ancora costruite di quelli che non sono ancora nati. E
anche i nostri antenati appartengono a questa "internazionale": poiche' con la nostra fine
perirebbero anch'essi, per la seconda volta (se cosi' si puo' dire) e definitivamente. Anche
adesso sono "solo stati"; ma con questa seconda morte sarebbero stati solo come se non
fossero mai stati.
*
Il nulla non concepito. Cio' che conferisce il massimo di pericolosita' al pericolo apocalittico
in cui viviamo, e' il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di
rappresentarci la catastrofe. Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una
persona cara) e' gia' di per se' abbastanza difficile; ma e' un gioco da bambini rispetto al
compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiche' questo nostro
compito non consiste solo nel rappresentarci l'inesistenza di qualcosa di particolare, in un
contesto universale supposto stabile e permanente, ma nel supporre inesistente questo
contesto, e cioe' il mondo stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa "astrazione
totale" (che corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell'immaginazione, alla nostra
capacita' di distruzione totale) trascende le forze della nostra immaginazione naturale.
"Trascendenza del negativo". Ma poiche', come homines fabri, siamo capaci di tanto
(siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacita' limitata della nostra immaginazione
(la nostra "ottusita'") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci
anche il nulla.
*
Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca: "Noi siamo
inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci un'immagine di cio' che noi stessi abbiamo
fatto. In questo senso siamo "utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre
cio' che concepiscono, noi non sappiamo immaginare cio' che abbiamo prodotto.
*
Lo "scarto prometeico". Non e' questo un fatto fra gli altri; esso definisce, invece, la
situazione morale dell'uomo odierno: la frattura che divide l'uomo (o l'umanita') non passa,
oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l'inclinazione, ma fra la nostra capacita'
produttiva e la nostra capacita' immaginativa. Lo "scarto prometeico".
*
Il "sopraliminare". Questo "scarto" non divide solo immaginazione e produzione, ma anche
sentimento e produzione, responsabilita' e produzione. Si puo' forse immaginare, sentire,
o ci si puo' assumere la responsabilita', dell'uccisione di una persona singola; ma non di
quella di centomila. Quanto piu' grande e' l'effetto possibile dell'agire, e tanto piu' e' difficile
concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto piu' grande lo "scarto", tanto piu' debole il
meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, e' infinitamente
piu' facile che ammazzare una sola persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo
stimolo troppo piccolo per provocare gia' una reazione), corrisponde il "sopraliminare": cio'
che e' troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo
inibitorio).
*
La sensibilita' deforma, la fantasia e' realistica. Poiche' il nostro orizzonte vitale (l'orizzonte
entro cui possiamo colpire ed essere colpiti) e l'orizzonte dei nostri effetti e' ormai illimitato,
siamo tenuti, anche se questo tentativo contraddice alla "naturale ottusita'" della nostra
immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato. Nonostante la sua naturale
insufficienza, e' solo l'immaginazione che puo' fungere da organo della verita'. In ogni
caso, non e' certo la percezione. Che e' una "falsa testimone": molto, ma molto piu' falsa di
quanto avesse inteso ammonire la filosofia greca. Poiche' la sensibilita' e' - per principio -
miope e limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli
"escapisti" di oggi non e' la fantasia, ma la percezione.
Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri normali (dipinti, cioe',
secondo la prospettiva normale): benche' realistici in senso tradizionale, sono (proprio
loro) irrealistici, perche' sono in contrasto con la realta' del nostro mondo dagli orizzonti
infinitamente dilatati.
*
Il coraggio di aver paura. La viva "rappresentazione del nulla" non si identifica con cio' che
si intende in psicologia per "rappresentazione"; ma si realizza in concreto come angoscia.
Ad essere troppo piccolo, e a non corrispondere alla realta' e al grado della minaccia, e'
quindi il grado della nostra angoscia. - Nulla di piu' falso della frase cara alle persone di
mezza cultura, per cui vivremmo gia' nell'"epoca dell'angoscia". Questa tesi ci e' inculcata
dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la
vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo piuttosto nell'epoca della minimizzazione e
dell'inettitudine all'angoscia. L'imperativo di allargare la nostra immaginazione significa
quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. Postulato: "Non
aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche quello di far paura. Fa' paura
al tuo vicino come a te stesso". Va da se' che questa nostra angoscia deve essere di un
tipo affatto speciale: 1) Un'angoscia senza timore, poiche' esclude la paura di quelli che
potrebbero schernirci come paurosi. 2) Un'angoscia vivificante, poiche' invece di
rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un'angoscia amante, che ha
paura per il mondo, e non solo di cio' che potrebbe capitarci.
*
Fallimento produttivo. L'imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e
della nostra angoscia finche' corrispondano a quella di cio' che possiamo produrre e
provocare, si rivelera' continuamente irrealizzabile. Non e' nemmeno detto che questi
tentativi ci consentano di fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non
dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del
tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso e' salutare, poiche' ci mette in guardia contro il
pericolo di continuare a produrre cio' che non possiamo immaginare.
*
Trasferimento della distanza. Riassumendo cio' che si e' detto sulla "fine delle distanze" e
sullo "scarto" tra le varie facolta' (e solo cosi' ci si puo' fare un'idea completa della
situazione), risulta che le distanze spaziali e temporali sono state bensi' "soppresse"; ma
questa soppressione e' stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di "distanza":
quella, che diventa ogni giorno piu' grande, fra la produzione e la capacita' di immaginare
cio' che si produce.
*
Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo diventati maggiori di cio'
che possiamo concepire (sentire, o di cui possiamo assumerci la responsabilita'), ma
anche maggiori di cio' che possiamo utilizzare sensatamente. E' noto che la nostra
produzione e la nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a
produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta trascende
addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non possiamo avere bisogno: cose
troppo grandi in senso assoluto. Cosi' ci siamo messi nella situazione paradossale di
dover addomesticare i nostri stessi prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo
addomesticato finora le forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette
"pulite", sono senza precedenti nel loro genere: poiche' con essi cerchiamo di migliorare
certi prodotti peggiorandoli, e cioe' diminuendo i loro effetti.
L'aumento dei prodotti non ha quindi piu' senso. Se il numero e gli effetti delle armi gia'
oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della distruzione del genere umano,
l'aumento e miglioramento della produzione, che continuano ancora su larghissima scala,
sono ancora piu' assurdi; e dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva,
di che cosa hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della concorrenza -
ha perduto ogni senso. Piu' morto che morto non e' possibile diventare. Distruggere meglio
di quanto gia' si possa, non sara' possibile neppure in seguito.
*
Richiamarsi alla competenza e' prova d'incompetenza morale. Sarebbe una leggerezza
pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i "signori dell'apocalissi", quelli che sono
responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque
acquisite, siano piu' di noi all'altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano
immaginare l'inaudito meglio di noi, semplici "morituri"; o anche solo che siano consapevoli
di doverlo fare. Assai piu' legittimo e' il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed
essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del
riarmo", e invitandoci a non "immischiarci". L'uso di questi termini e' addirittura la prova
della loro incompetenza morale: poiche' in tal modo essi mostrano di credere che la loro
posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del "to be or not to be"
dell'umanita'; e di considerare l'apocalissi come un "ramo specifico". E' vero che molti di
loro si appellano alla "competenza" solo per mascherare il carattere antidemocratico del
loro monopolio. Se la parola "democrazia" ha un senso, e' proprio quello che abbiamo il
diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica", che vanno,
cioe', al di la' della nostra competenza professionale e non ci riguardano come
professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si puo' dire che cosi' facendo ci
"immischiamo" di nulla, poiche' come cittadini e come uomini siamo "immischiati" da
sempre, perche' anche noi siamo la "res publica". E un problema piu' "pubblico"
dell'attuale decisione sulla nostra sopravvivenza non c'e' mai stato e non ci sara' mai.
Rinunciando a "immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere democratico.
*
Liquidazione dell'"agire". La distruzione possibile dell'umanita' appare come un'"azione"; e
chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E' giusto? Si' e no. Perche' no?
Perche' l'"agire"" in senso behavioristico non esiste pressoche' piu'. E cioe': poiche' cio'
che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come tale dall'agente, e' stato sostituito
da processi di altro tipo: 1) dal lavorare; 2) dall'azionare.
1) Lavoro come surrogato dell'azione. Gia' quelli che erano impiegati negli impianti di
liquidazione hitleriani non avevano "fatto nulla", credevano di non aver fatto nulla perche'
si erano limitati a "lavorare". Per questo "lavorare" intendo quel tipo di prestazione
(naturale e dominante, nella fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l'eidos del
lavoro rimane invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda piu', e non puo' ne' deve
piu' riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno e' che esso resta moralmente neutrale:
"non olet", nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo lavoro puo' macchiare chi lo
esegue. A questo tipo dominante di prestazione sono oggi assimilate quasi tutte le azioni
affidate agli uomini. Lavoro come mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita
all'autore di un eccidio di sentirsi colpevole, poiche' non solo non occorre rispondere del
lavoro che si fa, ma esso - in teoria - non puo' rendere colpevoli. Stando cosi' le cose,
dobbiamo rovesciare l'equazione attuale ("ogni agire e' lavorare") nell'altra: "ogni lavorare
e' un agire".
2) Azionare come surrogato del lavoro. Cio' che vale per il lavoro, vale a maggior ragione
per l'azionare, poiche' l'azionare e' il lavoro in cui e' abolito anche il carattere specifico del
lavoro: lo sforzo e il senso dello sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realta', si
puo' fare in tal modo pressoche' tutto, si puo' avviare una serie di azionamenti successivi
schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In questo caso (dal
punto di vista behavioristico) questo intervento non e' piu' un lavoro (per non parlare di
un'azione). Propriamente parlando non si fa nulla (anche se l'effetto di questo non-far-nulla
e' il nulla e l'annientamento). L'uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora
necessario) non si accorge piu' nemmeno di fare qualcosa; e poiche' il luogo dell'azione e
quello che la subisce non coincidono piu', poiche' la causa e l'effetto sono dissociati, non
puo' vedere che cosa fa. "Schizotopia", in analogia a "schizofrenia". E' chiaro che solo chi
arriva a immaginare l'effetto ha la possibilita' della verita'; la percezione non serve a nulla.
Questo genere di mimetizzamento e' senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti
miravano a impedire alla vittima designata dell'azione, e cioe' al nemico, di scorgere il
pericolo imminente (o a proteggere gli autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo
a impedire all'autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l'autore e' una vittima;
in questo senso Eatherly e' una delle vittime della sua azione.
*
Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci
istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiche' oggi le menzogne non hanno piu'
bisogno di figurare come asserzioni ("fine delle ideologie"). La loro astuzia consiste proprio
nello scegliere forme di travestimento davanti a cui non puo' piu' sorgere il sospetto che
possa trattarsi di menzogne; e cio' perche' questi travestimenti non sono piu' asserzioni.
Mentre le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verita', ora si camuffano
in altre guise:
1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno l'impressione di non
affermare ancora nulla, anche se, in realta', hanno gia' in se' il loro (bugiardo) predicato.
Cosi', per esempio, l'espressione "armi atomiche" e' gia' un'asserzione menzognera,
poiche' sottintende, poiche' da' per scontato, che si tratta di armi.
2) Al posto di false asserzioni sulla realta' subentrano (e siamo al punto che abbiamo
appena trattato) realta' falsificate. Cosi' determinate azioni, presentandosi come "lavori",
sono rese diverse e irriconoscibili; cose' irriconoscibili, e diverse da un'azione, che non
rivelano piu' (neppure all'agente) quello che sono (e cioe' azioni); e gli permettono, purche'
lavori "coscienziosamente', di essere un criminale con la miglior coscienza del mondo.
3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finche' l'agire si traveste ancora da
"lavorare", e' pur sempre l'uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando,
e cioe' che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche
quest'ultimo residuo: il che e' gia' accaduto. Poiche' l'agire si e' trasferito (naturalmente in
seguito all'agire degli uomini) dalle mani dell'uomo in tutt'altra sfera: in quella dei prodotti.
Essi sono, per cosi' dire, "azioni incarnate". La bomba atomica (per il semplice fatto di
esistere) e' un ricatto costante: e nessuno potra' negare che il ricatto e' un'azione. Qui la
menzogna ha trovato la sua forma piu' menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le
mani pulite, non c'entriamo. Assurdita' della situazione: nell'atto stesso in cui siamo capaci
dell'azione piu' enorme - la distruzione del mondo - l'"agire", in apparenza, e'
completamente scomparso. Poiche' la semplice esistenza dei nostri prodotti e' gia' un
"agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo "fare" dei nostri prodotti (se, ad
esempio, dobbiamo usarli solo come "deterrent"), e' una questione secondaria, anzi
fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
*
Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l'espressione "reificazione" non si
coglie il fatto che i prodotti sono, per cosi' dire, "agire incarnato", poiche' essa indica
esclusivamente il fatto che l'uomo e' ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece
dell'altro lato (trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioe' del fatto che
cio' che e' sottratto all'uomo dalla reificazione, si aggiunge ai prodotti: i quali, facendo
qualcosa gia' per il semplice fatto di esistere, diventano pseudopersone.
*
Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi principii.
Cosi', per esempio, il principio delle "armi atomiche" e' affatto nichilistico, poiche' per esse
"tutto e' uguale". In esse il nichilismo ha toccato il suo culmine, dando luogo
all'"annichilismo" piu' totale.
Poiche' il nostro agire si e' trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame di coscienza non
puo' consistere oggi soltanto nell'ascoltare la voce nel nostro petto, ma anche nel captare i
principii e le massime mute dei nostri lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere
inoperante quel trasferimento: e cioe' nel compiere solo quei lavori dei cui effetti potremmo
rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e nell'avere solo quei prodotti
la cui presenza "incarna" un agire che potremmo assumerci come agire personale.
*
Macabra liquidazione dell'ostilita'. Se il luogo dell'azione e quello che la subisce sono,
come si e' detto, dissociati, e non si soffre piu' nel luogo dell'azione, l'agire diventa agire
senza effetto visibile, e il subire subire senza causa riconoscibile. Si determina cosi'
un'assenza d'ostilita', peraltro affatto fallace.
La guerra atomica possibile sara' la piu' priva d'odio che si sia mai vista. Chi colpisce non
odiera' il nemico, poiche' non potra' vederlo; e la vittima non odiera' chi lo colpisce, poiche'
questi non sara' reperibile. Nulla di piu' macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che
fare con l'amore positivo). Cio' che piu' sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima, e'
quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del colpo.
Certo l'odio sara' ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sara' quindi prodotto
come articolo a se'. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al caso, s'inventeranno) oggetti
d'odio ben visibili e identificabili, "ebrei" di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiche' per
poter odiare veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest'odio non
potra' entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la
schizofrenia della situazione si rivelera' anche in cio', che odiare e colpire saranno rivolti a
oggetti completamente diversi.
*
Non solo per quest'ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna aggiungere che
sono state scritte perche' non risultino vere. Poiche' esse potranno non avverarsi solo se
terremo continuamente presente la loro alta probabilita', e se agiremo in conseguenza.
Nulla di piu' terribile che aver ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita'
della catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore degli
uomini, la massima cinica: "Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se
non lo fossimo!".