Cosa sta accadendo in Iran

Cosa sta accadendo in Iran, updated 9/26/22, 9:56 AM

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Cosa sta accadendo in Iran?
"Non è una rivolta di quelle che ormai si verificano ogni anno: stavolta ha le caratteristiche
di una rivoluzione. Per quattro motivi. Primo, per la prima volta in 43 anni riguarda tutto il
paese e non solo una sua parte, che sia il Kurdistan o il sud est a maggioranza araba,
come accaduto due settimane fa, proteste subito sedate. Secondo, partecipano tutte le
classi sociali: in passato abbiamo assistito a proteste della piccola borghesia, altre volte
della classe bassa. Stavolta partecipano poveri, lavoratori, classe media. Terzo, non ci si è
mobilitati per motivi economici, la gente sta chiedendo libertà. Quarto, è completamente
fuori dal controllo di qualsiasi organizzazione interna al regime che per anni ha mostrato
una doppia faccia, riformisti contro conservatori. Oggi la rivolta è contro il regime in sé e lo
si capisce dalla reazione compatta di tutte le forze politiche. Bruciare il velo è bruciare la
bandiera: questo regime ha usato il velo come rappresentazione della propria ideologia.
Oggi la gente dice no all’intero sistema politico del paese, alla natura stessa della
Repubblica islamica.
Perché ora? La morte di Amini è stata la scintilla di un dissenso che cercava sfogo?
Il suo vero nome non è Mahsa ma Jhina. In Iran non possiamo usare nomi curdi, che
restano ufficiosi, diversi da quelli ufficiali dei documenti di identità. Jhina significa «nuova
vita». E sta davvero dando una nuova vita al paese. È successo oggi perché l’Iran sta già
soffocando da tempo. Negli ultimi otto anni ci sono state rivolte cicliche, ma il regime è
riuscito a scollegarle tra loro, usando diversi strumenti...
Ma stavolta la sollevazione è l’accumulazione di tutte le sofferenze del popolo iraniano. La
situazione economica è terribile, ma lo slogan che risuona è il diritto a poter scegliere per
sé. Per decenni, quando contestavamo l’obbligo del velo, molti rispondevano che non era
certo il problema principale. Oggi la gente mostra che lo è perché rappresenta la libertà
individuale, la possibilità di scegliere per sé, il simbolo della propria volontà. Gli iraniani
non stanno chiedendo solo pane o lavoro, ma libertà. Altre volte ci rispondevano dicendo
che l’hijab è una caratteristica della nostra cultura. Non è così: è stato imposto dalla
rivoluzione islamica che ha obbligato le donne a indossarlo. Bruciando il velo, bruciano
quel mito.
Che ruolo hanno le donne?
Il sistema è stato disegnato per marginalizzare le donne e togliere loro ogni ruolo politico,
culturale, sociale. La donna deve essere moglie e madre, il suo dovere è procreare e
crescere i figli. Le donne iraniane non lo hanno mai accettato e sono sempre state motore
di cambiamento. Andate in Iran, vedrete che fanno qualsiasi cosa. Questa è una rivoluzione
femminile perché sono loro che organizzano la piazza, che vanno contro la polizia, che bruciano
il velo. E sono sostenute dagli uomini, è la novità. La furbizia del regime è stata creare
divisioni che sono entrate anche in casa: se crei un sistema a favore degli uomini, gli
uomini diventano i rappresentanti del regime anche tra le mura domestiche. Oggi però
sono al fianco delle donne.
E i giovani?
Oggi i giovani usano internet, conoscono il mondo fuori, sono più difficili da domare. Il 60%
della popolazione iraniana ha meno di 30 anni, persone che non ricordano o non hanno
partecipato alle grandi rivolte del 1999 e del 2009. Le università si sono risvegliate. Dopo
le proteste del 2009 il regime era riuscito a disinnescare gli studenti, ma oggi sono nuovo
motore di protesta contro il tentativo di escluderli dal discorso politico e sociale.
Teheran saprà mostrare elasticità, concedere qualcosa per sopravvivere?
È difficile, è costruito su questi principi. Se vengono meno, cade l’intera impalcatura della
Repubblica islamica. Per questo non cambia nonostante la maggioranza degli iraniani non
voglia più l’hijab o il controllo sulla libertà personale. Nelle grandi città i cittadini vengono
trattati in modo più morbido, ma nelle piccole città o in Kurdistan vengono gestiti con la
violenza. E nessuno paga per queste violenze: il presidente Raisi in queste ore è
all’Assemblea generale dell’Onu, eppure è il «giudice della morte», nel 1988 partecipò alla
condanna a morte di 6mila prigionieri politici, per lo più mujaheddin e comunisti. Ma
partecipa al consesso internazionale.
Tra le richieste della piazza c’è la soppressione della polizia morale.
La polizia morale è stata una delle prime invenzioni di Khomeini per costruire la sua
società ideale, a fronte della contrarietà della maggior parte della popolazione all’hijab o di
altri comportamenti pubblici non in linea con i principi del regime, dall’abbigliamento alla
pettinatura fino al linguaggio. All’inizio della rivoluzione tanti di noi ricordano le punizioni
corporali, come gli aghi in fronte. La polizia morale è uno strumento efficace per
terrorizzare, soprattutto i giovani: è davanti a ogni liceo e a ogni facoltà, controlla come si
ci veste, cosa si scrive sui telefoni. Ferma le auto dove ci sono uomini e donne per
verificare i loro rapporti familiari. In ogni caso la protesta in corso non vuole la fine della
polizia morale, ma la fine dell’intera natura del regime.