Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno

Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, updated 7/7/24, 7:47 AM

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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza

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Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, dinanzi a tale
prospettiva, si fa piu' serrato il confronto tra gli utopisti, secondo i quali e' possibile, in
ragione della stessa smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta' della
guerra, e i realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, puo' essere
custodito solo dall'equilibrio delle forze in campo.
Il contrasto tra utopisti e realisti e' antico quanto la cultura, ma ha cominciato a diventare
acuto agli inizi dell'eta' moderna. Nel chiudere il quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento
della letteratura nazionale, Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro
Rinascimento Girolamo Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro
l'arte e la natura" ... "e tra le ridde de' suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche
canto della piazza, sorridere pietosamente il pallido viso di Niccolo' Machiavelli". Il sorriso
scettico di Machiavelli e' durato fino ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e' che il tempo
in cui siamo rende possibile all'utopia di appropriarsi dei severi argomenti del realismo, e al
realismo, pena la negazione di se stesso, di integrare in se' le ragioni dell'utopia. Savonarola e
Machiavelli, insomma, non sono piu' gli emblemi di due opposte e inconciliabili maniere di
progettare il bene comune. Com'e' noto, il maestro dei realisti affidava alla virtu' (che nel suo
linguaggio voleva dire abilita' conforme a ragione) il compito di far fronte alla fortuna e cioe' al
corso caotico e imprevedibile degli eventi. A suo giudizio, fortuna e virtu' potevano governare
la storia umana con una incidenza del 50% ciascuna. Le milizie cittadine erano lo strumento
primo della virtu' di un principe. Uno strumento peraltro da usare all'interno di una
preveggenza multiforme delle eventualita' della fortuna. "Assomiglio quella - dice Machiavelli
ragionando della fortuna, nel Principe (cap. XXV) - a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando
s'adirano, allagano e' piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa parte terreno,
pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, senza
potervi in alcuna parte obstare. E benche' sieno cosi' fatti, non resta pero' che gli uomini,
quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo
che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe ne' si'
licenzioso ne' si' dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua
potenzia dove non e' ordinata virtu' a resisterle".
Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e' il fiume del fuoco
atomico, contro cui nessun argine vale, nessun "provvedimento" che non sia la sua
estinzione; e la "citta'" affidata al principe oggi e', secondo la "verita' effettuale", vorremmo
dire materialistica, non Firenze o l'Italia, ma il pianeta Terra.
Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte all'imperativo assoluto del bene
del Principato, un imperativo ipotetico, legato cioe' a condizioni di fatto, una volta che queste
condizioni mutano, anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare.
*
Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. L'umanita' e' entrata in un tempo nuovo nel
momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o
morire. Essa vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in
antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e noi siamo vivi!
Non e' forse vero che l'abisso si e' spaventosamente allargato dinanzi a noi? D'altronde le
mutazioni non avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con
fondatezza, che si sono andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il
riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della mutazione.
La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un destino unico di
vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata
l'immagine eurocentrica della storia, essa si e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui
esposizione piu' recente e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere
umano e' ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del
pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il Sud a dipendere dal Nord ma e' il
Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco e' resa
possibile dalla metodica rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente, perche'
esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi l'aggravarsi, della
spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti
dell'ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50
milioni, per l'appunto, nel solo anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio
conosciuto, che la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o
dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa
un'immensa quota dei profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto
anno 1979 e cioe' 10 volte di piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora
si sa. Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto
come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno piu' la coscienza
tranquilla.
La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace, ritenuta da
sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e' arrivato a coincidere con
l'istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile
dell'aggressivita' distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale e
quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante un'ardua disciplina e
solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si
limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra
tecnologica sono tali che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un sintomo
non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato.
Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualita'.
La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla sfera della razionalita'.
Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto
secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una
extrema ratio, e cioe' come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre
ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una
specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento"
funesto generava l'"avvenimento" fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non
genererebbe nessun avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel
grembo materno dell'accadimento.
*
Queste tre verita' non trovano il loro giusto contesto nella cultura e nella pratica politica
ancora dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano e' anch'esso di tipo nuovo, non in
continuita' con quello tradizionale. Per pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme
idealistiche o misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle
correnti ideologiche che, nell'eta' moderna, hanno posto a fondamento della politica la
ricerca di una pace definitiva. In questo senso potremmo parlare di tre diversi pacifismi che
hanno accompagnato, contestandole, le culture via via dominanti, il cui dogma centrale e'
sempre stato la inevitabilita' della guerra.
Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico perche' ebbe le sue prime
manifestazioni nell'eta' di Erasmo, ma che potremmo chiamare anche, utilizzando un lessico
piu' alla moda, radicale. Il suo principio e' la tolleranza, il suo nemico e' il fanatismo, da
quello religioso a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va posata sulla
fede religiosa o su qualsiasi altra visione del mondo, ma su cio' che negli uomini e' comune,
sulla loro natura razionale, la cui voce e' la coscienza. "Voila' l'ennemi" diceva Voltaire
indicando la chiesa cattolica. Il pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle
istituzioni, in particolar modo nell'esercito, e ripone la causa dello spirito aggressivo
nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze. Cio' che sembra mancare in questo
tipo di pacifismo, a causa del suo impianto individualistico, e' la disponibilita' al confronto e
soprattutto la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della loro capacita', almeno
potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al privilegio e di fornirgli strumenti di diritto per il
perseguimento della giustizia e dell'eguaglianza. Ecco perche' esso e' stato sempre un
pacifismo elitario, capace di svegliare le coscienze, ma incapace di mordere realmente sulle
cause che generano i conflitti interni ed esterni alla societa'. Il principio della tolleranza e'
senza dubbio necessario a dar fondamento a una societa' pacifica, purche' pero' venga
coniugato con una militanza politica il cui obiettivo sia la subordinazione delle istituzioni ai
fini del bene comune e della pace.
E' questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la formula ideologica
che gli dettero, al suo nascere, i giacobini, esso identifica la causa delle guerre con le
tirannidi, e la fondazione della pace con l'esercizio effettivo della sovranita' popolare. I popoli
amano la pace - ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperita', la liberta'
coincidono con i loro interessi, mentre la guerra produce sprechi, rovine, servitu' militari.
Bastarono i plebisciti di Napoleone a dimostrare quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E
tuttavia l'idea che un popolo, una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della
sovranita', rifugga naturalmente dalle guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo dopoguerra essa
ebbe una splendida reviviscenza con la dottrina di Wilson che tenne a battesimo la Societa'
delle Nazioni. Ma fu proprio nella piu' democratica delle repubbliche, nata dalle rovine
dell'Impero tedesco, quella di Weimar, che prospero' e trionfo', col rispetto delle regole, il
nazismo. Ed oggi noi siamo qui a constatare che un paese di sicura democrazia formale come
gli USA si e' trasformato in una cittadella atomica, alla cui ombra prosperano in tutto il
mondo dittature militari. Il limite dell'ideologia democratica e' che essa chiama in causa il
popolo senza tener conto delle forze che nel suo seno si contrastano e lo frantumano
piegandolo alla loro logica.
La risposta piu' razionale alla questione della pace sembrava averla data il pacifismo
socialista. L'internazionalismo operaio e' senza dubbio l'utopia pacifista piu' straordinaria
che sia nata nel mondo moderno. Il suo strumento di lotta, lo sciopero, e' stato ed e' un'arma
non violenta, che ha modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che esso non
e' stato in grado di arrestare nessuna delle due guerre mondiali: anche quando e' stato
indetto, lo "sciopero per la pace" non ha mai funzionato. Lenin ha aggiornato la dottrina
marxista della guerra, dimostrando che essa e' strutturalmente connessa alla societa'
capitalistica e che percio' vivra' e morira' con questa. La razionalita' della guerra e' nel fatto di
portare al limite l'inevitabile crisi del capitalismo e di preparar cosi' il suo capovolgimento: la
rivoluzione. E' quanto avvenne, per suo merito, in Russia. Ma la sua tesi, smentita per due
volte, era che una guerra mondiale avrebbe dovuto generare una rivoluzione mondiale.
La crisi del pacifismo socialista si e' aggravata in questi ultimi tempi, provocando un collasso
estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di due ordini. La' dove si ritiene di aver gia'
realizzato il socialismo, non solo si e' messo in piedi un apparato di resistenza militare che
uguaglia quello delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica socialista
all'imperialismo del capitale potrebbe anche vedere un dato provvidenziale), ma ha mutuato
in pieno la cultura borghese della repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno
liberi dalla logica del capitale, c'e' attualmente lo stato di all'erta: segno, per molti, che le
cause della guerra non sono riducibili all'economia di mercato.
Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista e' contraddetta almeno da due
dati oggi emergenti: i movimenti pacifisti all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in
scena dei paesi ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze
capitalistiche si equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra parlamentare. Per quanto
duttile, il suo pensiero era ancora succube dello schematismo economicistico. Non solo, ma
quello che noi chiamiamo Terzo Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo
capitalista, una specie di immensa retroguardia del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno
scenario storico cosi' imprevisto qual e' quello odierno, l'ideologia socialista appare ormai
inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo all'altezza delle necessita'. Essa sconta fino in
fondo il lato positivistico della sua origine che l'ha tenuta subalterna all'ideologia borghese.
Non e' forse una tesi di Marx e di Lenin che il proletariato e' il naturale erede della cultura
della borghesia, che e' intimamente cultura di violenza? Niente di strano che ben poco sia
rimasto oggi, in occidente, del pacifismo proletario. Non e' forse vero, ad esempio, che,
stretti nel cappio delle necessita' del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro anche
nell'immenso apparato che, in Italia come in tutto il mondo industriale, produce armi da
esportare nei paesi del Terzo Mondo per dar forza ai regimi oppressivi? Marx ed Engels non si
sarebbero forse scandalizzati, dato che per loro la pace sarebbe stata il risultato di una
rivoluzione mondiale che, dandosi la necessita', avrebbe potuto anche far uso della violenza
delle armi. Ma che senso ha oggi parlare di rivoluzione armata, quando le classi dominanti del
sistema imperialistico hanno in mano le armi atomiche?
*
Eccoci, cosi', alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno confusamente, che se ci sara'
una reazione all'altezza dell'estremo discrimine in cui siamo, essa non potra' essere piu' la
proposta dei pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredita', ma un mutamento
culturale (la mutazione di cui sopra si diceva) che metta fine, una volta per sempre, all'eta'
neolitica, tanto per usare un'espressione cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come
diceva Marx. Nelle nuove manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di
cambiamento, non solo della politica, ma dei termini fondamentali della presenza dell'uomo
alla storia e al mondo, e cioe' la richiesta del passaggio da una civilta' che aveva assunto la
competizione come molla del suo stesso sviluppo ad una civilta' che ponga la sua radice
nell'altra valenza dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale, consolatoria e comunque
inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del proprio essere, della
collaborazione come condizione del proprio sviluppo, della solidarieta' con l'intera specie
come condizione del suo essere persona.
Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi c'e' anche quello,
remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie. Ora sappiamo che gli uomini
preistorici non erano piu' bellicosi di noi, a volte non lo erano affatto. E' vero: la civilta' (ma
questa parola ora la pronunciamo con piu' pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse
non manca mai la guerra. Ma questo nesso costante tra civilta' e guerra ci autorizza a
dedurne che dunque la guerra e' una legge insuperabile della specie? Troppe volte, nel
passato, si attribuiva alla natura della specie quello che poi si e' scoperto essere niente piu'
che un portato della cultura. Ad esempio, la schiavitu'. L'opinione comune, fino a due secoli
fa, era che la schiavitu' fosse un'esigenza naturale della societa' umana, proprio come aveva
insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per eccellenza, Aristotele. Oggi l'idea stessa di
schiavitu' ci ripugna. E cosi': appena oggi si sta sfaldando il pregiudizio secondo il quale e' la
natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da Aristotele a san Tommaso, a Kant, a
Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi anche nel diritto italiano e' stata
sancita la parita' dell'uomo e della donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che quanto si
attribuiva alla natura non era che un portato della cultura.
Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'e' stata l'eta' della pietra
e poi quella del bronzo e del ferro, non potrebbe esserci, dopo la civilta' della guerra, la civilta'
della pace?
E' vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli autori di questa
rassegna. Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle cose non puo' non portare alla
previsione della catastrofe. Ma cio' che e' improbabile, non per questo e' impossibile. La
paleontologia dimostra che la nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalita' (quella fatalita'
che invece ha avuto la meglio su altre specie di animali e di ominidi), mettendo i propri
ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo istinto di conservazione. In questi decenni la
specie si trova in una congiuntura del genere: il fuoco atomico, che la sua intelligenza le ha
messo tra le mani, puo' incendiare e distruggere sulla Terra ogni germe di vita o puo' diventare
lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della storia umana, quella in cui il
genere umano viva pacificamente nell'unica citta' che e' ormai il nostro pianeta.
Per la prima volta questa utopia e' diventata realistica, sia nel senso che essa e' per la prima
volta tecnicamente possibile, sia nel senso che essa e' l'unica alternativa alla morte
universale Quel che le manca e', appunto, una cultura che sia al suo livello, cioe', come si e'
detto, al livello della voce della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che succeda
alla cultura della guerra di cui noi siamo figli, cosi' come alla cultura paleolitica successe,
piu' di diecimila anni fa, la cultura neolitica che ancora sopravvive nelle sue istituzioni
fondamentali.
E' vero, il tempo e' breve, cosi' breve che e' gia' un grave obbligo adoperarsi perche' non sia
accorciato. Ed e' questo che da ogni parte viene chiesto ai titolari del potere politico, in attesa
che la mutazione antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa
chiama in causa la societa' in tutte le sue articolazioni organiche, anzi - non dovremmo aver
paura a riconoscerlo - chiama in causa primariamente le singole coscienze. Difatti, alla base
della pace c'e' una virtu' che non puo' essere insegnata: e' la fede dell'uomo nell'uomo e, in
generale, la fede dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e mortificate dalla
gelida stagione del cinismo morale. Non si obietti che questa fede nell'uomo non e' in regola
con i rigori della ragione, perche' e' appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a
nient'altro e' intenta se non a codificare l'esistente e a proiettarne le forme nel futuro, e'
proprio questa ragione il primo bersaglio della fede morale. D'altronde anche questa ragione
cinica ha le sue forme di fede, quella, ad esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro
che propongono come seria l'ipotesi di una guerra al neutrone regionale e controllata!
La fede morale non e' piu' un semplice postulato, un'esigenza cioe' senza riscontro nei fatti.
Essa ha gia' dalla sua parte alcuni processi in corso, il cui senso unitario si svela solo se si
assume la civilta' della pace come loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi
che stanno battendo in breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della civilta'
della guerra. La prima di queste premesse e' che l'uomo sia per natura aggressivo, di
quell'aggressivita' distruttiva che noi chiamiamo violenza. Come sopra si diceva, le ricerche
antropologiche ci hanno condotto ad un punto in cui non ha piu' senso dire che l'uomo e' per
natura pacifico o che l'uomo e' per natura violento. La natura dell'uomo e' nel suo farsi, e'
cioe' nella sua cultura. Come dire che l'uomo e' cosi' come si fa. Insomma, una cultura della
pace non contraddice a nessun dato irreformabile, scritto nei cieli o sulla terra. Osserviamo
cosa avviene nella societa' cresciuta all'ombra del fungo atomico.
- Per la prima volta nella sua storia la specie umana e' fisicamente come un individuo solo,
secondo la suggestiva immagine di Pascal: un individuo con la coscienza ancora dispersa e
frazionata nel suo organismo, ma con strutture fisiche e psichiche gia' pronte perche'
avvenga l'unificazione soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, piu' ancora, quella Nord/Sud, sono
sempre piu' intollerabili: chi le tollera e' un ominide il cui sottosviluppo e' insieme
intellettuale e morale. Se trionferanno gli ominidi, il tempo della fine e' gia' segnato, perche' la
loro egemonia e' diventata fisicamente impossibile. Il colosso della civilta' della tecnica - il
Nord - ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e quando lo schiavo si accorge che il padrone non
sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il tempo del padrone e' finito, ed e' finita la sua
cultura. Il padrone puo' morire come Sansone o puo' morire di tranquilla morte naturale, e
cioe' il Nord puo' morire sotto le macerie cosmiche provocate dalla sua tracotanza o puo'
morire risolvendosi in una comunita' mondiale senza piu' discriminazioni.
- Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non puo' piu' essere quello che e' stato, non lo
puo' piu' per ragioni fisiche. L'ideologia dello sfruttamento illimitato della natura si capovolge
ormai contro i suoi fautori. Gia' si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la
natura che non e' quello alienante del romanticismo, e' un rapporto su cui batte la luce
dell'utopia marxiana dell'uomo naturalizzato e della natura umanizzata. La passione
ecologica e' un capitolo importante della cultura della pace.
- Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (e' proprio il caso di dirlo)
della violenza e' il modo storico in cui si e' determinato il rapporto uomo-donna, tanto
nell'esercizio della sessualita' quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua
bipolarita'. L'emancipazione femminile, con il connesso mutamento del senso della
sessualita', segna potenzialmente un salto qualitativo nella stessa soggettivita' umana.
L'"altra meta' del cielo", anzi l'altra meta' della terra, a partire dall'eta' neolitica, e' stata
mantenuta con violenza al di fuori degli spazi in cui si crea la storia: l'uomo del neolitico e' un
uomo dimidiato e proprio per questo violento. L'emancipazione femminile e' potenzialmente
un altro capitolo della cultura della pace.
- Ma il fenomeno forse piu' rilevante, che da' conforto alla fede nell'uomo, e' la nuova
dialettica che si e' aperta all'interno delle grandi religioni. Possiamo limitarci, e non solo per
brevita', al cristianesimo. La soglia atomica, come si e' detto, in quanto crinale tra morte e
vita del genere umano, e' di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se l'alternativa della vita
trionfera', essa non potra' andare che nel senso di una composizione unitaria del genere
umano. Il che significa che tutto cio' che e' nato e cresciuto con i segni del "particolare" potra'
sopravvivere solo se sapra' accettare le nuove misure di universalita' concreta. Alla pari delle
altre religioni, il cristianesimo non potra' non apparire (e gia' appare) come il patrimonio di
una porzione del genere umano. La sua storia, nel bene e nel male, si confonde con quella
dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce come un pungolo sulla forma storica del
cristianesimo, un pungolo che sgretola quel che e' connesso alla relativita' storico-geografica
e, nello stesso tempo, fa emergere il suo nucleo profetico. La profezia cristiana ha questo di
proprio e forse di esclusivo: che e' una profezia messianica, investe cioe' la totalita' delle
speranze degne dell'uomo, prima fra tutte la speranza della pace. In questo senso il
cristianesimo trabocca dai confini religiosi e si commisura, senza sforzi, sulla qualita' laica
della storia.
- Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre confessioni che fanno capo
al Consiglio Ecumenico delle Chiese sta spostando l'asse della propria vita interna o della
propria missione storica dagli spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo decisivo
la giustizia e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo e' gia' in atto. Morendo alle sue
terribili stagioni di complicita' con le guerre, il cristianesimo di ogni confessione mette in
evidenza la sua indole di fondo, che e' la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono
che la transizione alla civilta' della pace e' come un appuntamento storico che Dio ha loro
fissato e su cui le giudichera'. Una chiesa veramente evangelica e' come un'obiezione di
coscienza piantata da Dio nella carne viva del mondo. Ebbene, in questi ultimi tempi le
chiese, perfino nei loro vertici istituzionali, che sono piu' tardi a muoversi e che d'altronde
hanno ancora un pesante conto da pagare alla civilta' della pace, si sentono sospinte sulle
trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi il loro no. Secondo alcuni, e' gia' matura la
stagione per un Concilio ecumenico in cui le chiese si ritrovino non per lanciare un nuovo
messaggio al mondo ma per assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze, la
responsabilita' della sopravvivenza del mondo e, in positivo, dell'avvento della civilta' della
pace.
- Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando un'indagine
commissionata dall'Unesco, riconosceva che la crisi della scuola era un dato evidente in ogni
parte del mondo e osava affermare che, alla radice di questa crisi, c'era una "mutazione
antropologica". Gli autori di questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si
tratti. La scuola, nelle forme e nei modi che le sono stati assegnati dalla rivoluzione borghese
e che nei paesi dell'Est europeo appaiono aggravati, e' sempre stata l'apparato ideologico
destinato a procurare consensi al potere costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le
classi dominanti, per definizione, guardano al mondo con l'occhio del dominio e cioe'
l'occhio che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il proprio particolare per l'universale,
il proprio calcolo per la Ragione, la propria espansione colonialistica per la diffusione della
civilta'. Ma l'occhio fiero del padrone ha bisogno dell'occhio umile dello schiavo: oggi,
finalmente, l'occhio umile non c'e' piu'. Le barriere, almeno dal punto di vista conoscitivo,
sono cadute e nessuna cultura puo' ormai provocare un'eco veramente umana nelle
coscienze se non e' cultura planetaria, e cioe' se il suo punto di vista non e' il punto di vista
del pianeta divenuto l'indivisibile citta' dell'uomo. Per diventare planetaria la cultura deve
essere cultura di pace.
La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base della crisi della
scuola e' proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola e' ancora un organo di diffusione
della cultura padronale che e', per forza di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale
con i processi di crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno
semplici palliativi finche' non scenderanno a questa profondita', per mettere in questione il
presupposto antropologico che ha fatto da dogma latente della cultura occidentale. Tocca
alla scuola provvedere alla riforma di se stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi
propri, ai processi di cambiamento che preparano e prefigurano la cultura della pace.
*
Uno dei modi con cui la scuola puo' inserirsi, con efficacia decisiva, in quei processi e' la
costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria storica diversa da quella codificata nel
sapere dominante. Ed e' un compito che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario
e filosofico che abbiamo ricevuto in eredita'. Tutto cio' che, in questo patrimonio, era
riconducibile alla sfera dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti critici,
puntualmente sigillato nella dimenticanza o relegato ai margini come ingenuo o
poeticamente evasivo. E' razionale solo cio' che e' reale: ecco il dogma implicito o esplicito
che ha presieduto alla codificazione del sapere. La parola pace, nei libri di scuola, serve
normalmente per indicare i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco piu' che
interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civilta'. La "verita' effettuale" e'
diversa. E' diversa non solo nell'animo e nel costume dei popoli, che negli annali ufficiali
sembrano piuttosto oggetti che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a
cui e' solito rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno.
E' appunto di questo secondo aspetto della verita' effettuale che la presente rassegna
intende offrire una larga documentazione critica. Il panorama che essa offre e' di necessita'
limitato, nel tempo e nello spazio. Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende
origine la politica degli Stati e congiuntamente si trasforma, anche dal punto di vista tecnico,
l'"istituzione guerra". Nello spazio: la rassegna resta, salvo qualche sortita, nei confini del
pensiero occidentale anche perche' e' in quest'area che la civilta' della guerra ha prodotto le
sue grandezze e oggi il suo dilemma mortale.
Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in queste pagine sempre
in un rapporto dialettico con la realta' della guerra e appare sempre, alla prova dei fatti,
perdente. Solo oggi, nell'era di Hiroshima, le due logiche, quella dell'ideale morale e quella
della necessita' realistica, arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma di
prospettive morali e politiche.
Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a questo singolare
evento della coincidenza tra utopia e realismo, la loro posizione, anzi hanno voluto
apertamente dichiararla fin da questa lunga premessa. E tuttavia essi sono convinti di non
aver fatto forza al senso oggettivo delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realta'
su cui le coscienze possono elaborare, in modo autonomo, le proprie scelte. Lo strumento
che essi hanno preparato intende provocare e soccorrere, all'interno della scuola, un
dibattito che e sicuramente il piu' alto, il piu' universale e, sia permesso di dire, il piu' religioso
tra quelli che fanno ancora della scuola l'occasione piu' importante per la formazione
dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci aiutino a colmare lacune e
a rettificare giudizi per rendere il nostro lavoro sempre piu' adatto ad illuminare e ad
alimentare, dentro e fuori della scuola, la cultura della pace da cui dipende il destino della
Terra.


[Quanto sopra è l'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico Grassi, La pace.
Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo libro per le scuole che illustrava ed
antologizzava la tradizione del pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a
Gandhi a Anders. L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al
convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di
elaborazione piu' alti e profondi del grande movimento pacifista che in quegli anni si batteva
contro il riarmo atomico dell'est e dell'ovest.

Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922, ed e' deceduto a
seguito di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore
culturale, promotore di numerose iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista
"Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986. Oltre che
infaticabile attivista per la pace e i diritti, e' stato un pensatore di grande vigore ed originalita',
le cui riflessioni ed analisi sono decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei
drammatici problemi dell'ora presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo
particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio (Bompiani); La pace.
Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione con Lodovico Grassi; Pensieri di pace
(Cittadella); L'uomo planetario (Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp); Montezuma
scopre l'Europa (Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si chiude
(Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una cosa (Ecp); la raccolta
postuma di scritti su temi educativi Educazione come liberazione (Libreria Chiari); il manuale
di storia della filosofia, Storia del pensiero umano (Cremonese); ed il corso di educazione
civica Cittadini del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su
Ernesto Balducci: cfr. almeno i fondamentali volumi monografici di "Testimonianze" a lui
dedicati: Ernesto Balducci, "Testimonianze" nn. 347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga
marcia dei diritti umani, "Testimonianze" nn. 373-374, 1995; un'ottima rassegna bibliografica
preceduta da una precisa introduzione biografica e' il libro di Andrea Cecconi, Ernesto
Balducci: cinquant'anni di attivita', Libreria Chiari, Firenze 1996; cfr. anche il libro di Bruna
Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernita', Laterza, Roma-Bari 2002;
cfr. anche almeno Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma
2002; e AA. VV., Verso l'"uomo inedito", Fondazione Ernesto Balducci, San Domenico di
Fiesole (Fi) 2004. Per contattare la Fondazione Ernesto Balducci: www.fondazionebalducci.it]