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berlinguer (1), updated 6/4/24, 1:56 PM

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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza

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«I partiti non fanno più politica», mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara sulla bocca e, nella voce,
come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella
politica fino al collo: le pagine dei giornali e della Tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di
battaglie politiche, di slogans politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il
rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dall’Alpi al Lilibeo…

«No, no, non è così.», dice lui scuotendo la testa sconsolato. «Politica si faceva nel ‘ 45, nel ‘ 48 e ancora
negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee, certo,
scontri di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di
assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante!
Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De
Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, ne era ricambiato.»
Oggi non è più così?
«Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia.»
La passione è finita? La stima reciproca è caduta?
«Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa
altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e
di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali,
programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più
contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani
emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si
è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne
promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille,
ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la
DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino,
Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i
socialdemocratici peggio ancora…»
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
«È quello che io penso.»
Per quale motivo?
«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti
locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la
Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, “il Corriere
della Sera”, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande
organo di stampa come il “Corriere” faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o
si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e
i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse
del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a
questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un
appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i
beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di
riconoscimenti dovuti.»
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
«E secondo lei non corrisponde alla situazione?»
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli
italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi
avreste conquistato la guida del paese da un pezzo. Allora delle due l’una: o gli italiani hanno, come si suol
dire, la classe dirigente che si meritano, oppure preferiscono questo stato di cose degradato all’ipotesi di
vedere un partito comunista insediato al governo e ai vertici del potere. Che cosa è dunque che vi rende così
estranei o temibili agli occhi della maggioranza degli italiani?
«La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo
me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle
discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti
solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne
più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei
referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non
comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi
privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti.
Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine
di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come
nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e
amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Non nego che, alla lunga, gli effetti
del voto referendario sulla legge 194 si potranno avvertire anche alle elezioni politiche. Ma è un processo
assai più lento, proprio per le ragioni strutturali che ho indicato prima.»
C’è dunque una sorta di schizofrenia nell’elettore.
«Se vuole la chiami così. In Sicilia, per l’aborto, quasi il 70 per cento ha votato “NO”: ma, poche settimane
dopo, il 42 per cento ha votato Dc. Del resto, prendiamo il caso della legge sull’aborto: in quell’occasione, a
parte le dichiarazioni ufficiali dei vari partiti, chi si è veramente impegnato nella battaglia e chi ha più
lavorato per il “NO” sono state le donne, tutte le donne, e i comunisti. Dall’altra parte della barricata, il
Movimento per la vita e certe parti della gerarchia ecclesiastica. Gli altri partiti hanno dato, sì, le loro
indicazioni di voto, ma durante la campagna referendaria non li abbiamo neppure visti, a cominciare dalla
Dc. E la spiegazione sta in quello che dicevo prima: sono macchine di potere che si muovono soltanto
quando è in gioco il potere: seggi in comune, seggi in parlamento, governo centrale e governi locali,
ministeri, sotto-segretariati, assessorati, banche, enti. se no, non si muovono. Quand’anche lo volessero,
così come i partiti sono diventati oggi, non ne avrebbero più la capacità.»
Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose
stanno come lei le descrive.
«In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va
così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di
sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli
italiani abbiano timore di questa diversità.»
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani,
oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la
vostra diversità? C’è da averne paura?
«Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua
domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà
più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti
debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione;
e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in
ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo,
controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ho detto che i partiti hanno degenerato, quale
più quale meno, da questa funzione costituzionale loro propria, recando così danni gravissimi allo Stato e a
se stessi. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la prima
ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?»
Mi pare che incuta paura a chi ha degenerato. Ma vi si può obiettare: voi non avete avuto l’occasione di
provare la vostra onestà politica, perché al potere non ci siete mai arrivati. Chi ci dice che, in condizioni
analoghe a quelle degli altri, non vi comportereste allo stesso modo?
«Lei vuol dirmi che l’occasione fa l’uomo ladro. Ma c’è un fatto sul quale l’invito a riflettere: a noi hanno
fatto ponti d’oro, la Dc e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa posizione d’intransigenza e di
coerenza morale e politica. Ai tempi della maggioranza di solidarietà nazionale ci hanno scongiurato in tutti
i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al
banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l’occasione fa l’uomo ladro, debbo dirle che le nostre
occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati. Se avessimo voluto venderci, se
avessimo voluto integrarci nel sistema di potere imperniato sulla Dc e al quale partecipano gli altri partiti
della pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto farlo; ma la nostra risposta è stata no. E ad un certo
punto ce ne siamo andati sbattendo la porta, quando abbiamo capito che rimanere, anche senza
compromissioni nostre, poteva significare tener bordone alle malefatte altrui, e concorrere anche noi a far
danno al Paese.»
Veniamo alla seconda diversità.
«Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli
emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle
decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano
soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la
partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.»
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
«Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e
abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti
con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il
proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni,
amministrate con onestà, ci siamo noi»
Non voi soltanto.
«È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo
economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di
enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati,
rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa
mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia
un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le
forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC – non
funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come
meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati,
di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni
di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È
un delitto avere queste idee?»
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a
lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
«Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre
molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati,
dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo
capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo
sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e
nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora
ignote o da essi ignorate.
Noi abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli
interessi della classe
operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici in generale, ma anche quelli degli strati emarginati
della società, a cominciare dalle donne, dai giovani, dagli anziani. Per risolvere tali problemi non bastano
più il riformismo e l’assistenzialismo: ci vuole un profondo rinnovamento di indirizzi e di assetto del
sistema. Questa è la linea oggettiva di tendenza e questa è la nostra politica, il nostro impegno. Del resto, la
socialdemocrazia svedese si muove anch’essa su questa linea: e quasi metà della socialdemocrazia tedesca
(soprattutto le donne e i giovani) è anch’essa ormai dello stesso avviso. Mitterrand ha vinto su un
programma per certi aspetti analogo.»
Vede che non ha ragione di alterarsi se dico che tra voi e un serio partito socialista non ci sono grandi
differenze.
«Non mi altero affatto. basta intendersi sull’aggettivo serio, che per noi significa comprendere e
approfondire le ragioni storiche, ideali e politiche per le quali siamo giunti a elaborare e a perseguire la
strategia dell’eurocomunismo (o terza via, come la chiamano anche i socialisti francesi), che è il terreno sul
quale può aversi un avvicinamento e una collaborazione tra le posizioni dei socialisti e dei comunisti.»
Dunque, siete un partito socialista serio…
«…nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…»
Però, alle elezioni del 21 giugno, i socialisti di Craxi sono andati parecchio meglio di voi. Come se lo spiega?
«I socialisti hanno certamente colto alcune esigenze nuove che affiorano nel paese. In modi non sempre
chiari, ma comunque percettibili, stanno mandando segnali a strati di borghesia e anche di alta borghesia.
La crisi profonda che ha investito la Dc non è senza riflessi sull’incremento del Psi, nonché dei
socialdemocratici, dei liberali, dei repubblicani. C’è stanchezza verso la Dc e il desiderio diffuso di
cambiamento. Il 21 giugno, il grosso dei voti che sono defluiti dalla Dc si è trasferito nell’area laica e
socialista. Per ora è stato così.»
Lo giudica un fenomeno positivo?
«Complessivamente, sì, dato che si accompagna ad un calo dei fascisti del Msi e a una conferma della
nostra ripresa rispetto al ’79.»
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
«No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi
politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche
noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI,
abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una
condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una
politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al
passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per
consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e
società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa
dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.»
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?
«Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà
che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia
così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare
quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni – che poi non è altro che un corretto ripristino del
dettato costituzionale – senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la
questione morale resterà del tutto insoluta.»
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
«La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte
sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in
galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei
partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione
della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco
perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono
provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale
andando alle sue cause politiche.»
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