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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza
Primo Levi: Shema’
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo e’ un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un si’ o per un no.
Considerate se questa e’ una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piu’ forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo e’ stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
10 gennaio 1946
*
Primo Levi: Alzarsi
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finche’ suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawac”:
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre e’ sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawac”.
11 gennaio 1946
*
Primo Levi: Si immagini ora un uomo…
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa,
le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sara’ un uomo
vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignita’ e discernimento, poiche’ accade
facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potra’ a cuor
leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinita’ umana; nel caso
piu’ fortunato, in base ad un puro giudizio di utilita’. Si comprendera’ allora il duplice
significato del termine “Campo di annientamento”…
*
Primo Levi: Che appunto perche’…
Che appunto perche’ il Lager e’ una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non
dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si puo’ sopravvivere, e percio’ si deve
voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere e’
importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civilta’.
Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma
che una facolta’ ci e’ rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perche’ e’ l’ultima: la
facolta’ di negare il nostro consenso.
*
Primo Levi: Verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio
1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (…).
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori
imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono
a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano
imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (…).
Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pieta’, da un confuso
ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la
stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta
che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non
conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde
che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e
che la sua volonta’ buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
*
Primo Levi: Hurbinek
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un
albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per
conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva
bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col
tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek mori’ ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non
redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
*
Primo Levi: Approdo
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro se’ mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si e’ tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme ne’ spera ne’ aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.
10 settembre 1964
*
Primo Levi: La bambina di Pompei
Poiche’ l’angoscia di ciascuno e’ la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si e’ fatto nero.
Invano, perche’ l’aria volta in veleno
E’ filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta gia’ del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si e’ pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Cosi’ tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta e’ stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
20 novembre 1978
*
Primo Levi: Non ci sono demoni…
Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il
nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato,
consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che
e’ senza ritorno.
*
Primo Levi: Partigia
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
La’ dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’e’ congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sara’ duro,
Ci sara’ duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perche’ nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno e’ nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non e’ mai finita.
23 luglio 1981
*
Primo Levi: Il superstite
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’e’.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno e’ morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non e’ mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
4 febbraio 1984
*
Primo Levi: Contro il dolore
E’ difficile compito di ogni uomo diminuire per quanto puo’ la tremenda mole di questa
“sostanza” che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme; ed e’ strano, ma bello, che
a questo imperativo si giunga anche a partire da presupposti radicalmente diversi.
*
Primo Levi: Canto dei morti invano
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purche’ trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perche’ siamo i vinti.
Invulnerabili perche’ gia’ spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finche’ la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
14 gennaio 1985
*
Primo Levi: Agli amici
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purche’ fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.
16 dicembre 1985
*
Primo Levi: La vergogna del mondo
E c’e’ un’altra vergogna piu’ vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente
da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che “nessun uomo e’
un’isola”, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’e’ chi davanti alla
colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, cosi’ da non vederla e non sentirsene toccato:
cosi’ hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il
non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di
complicita’ o di connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il “partial shelter” di
T. S. Eliot, e’ stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e
presente, ci circondava, ed il suo livello e’ salito di anno in anno fino quasi a sommergerci.
Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perche’ era tutto intorno, in ogni
direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, ne’ abbiamo voluto, essere isole; i giusti
fra noi, non piu’ ne’ meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato
rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa,
ed in cui si sono sentiti coinvolti, perche’ sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro,
ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai piu’;
avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente
capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore e’ la sola forza che si crei dal
nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.
*
Primo Levi: Il nocciolo di quanto abbiamo da dire
L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti e’ estranea alle nuove
generazioni dell’Occidente, e sempre piu’ estranea si va facendo a mano a mano che
passano gli anni (…).
Per noi, parlare con i giovani e’ sempre piu’ difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed
insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati.
Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati
collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto
perche’ inaspettato, non previsto da nessuno. E’ avvenuto contro ogni previsione; e’
avvenuto in Europa; incredibilmente, e’ avvenuto che un intero popolo civile, appena
uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi
muove al riso; eppure Adolf Hitler e’ stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E’
avvenuto, quindi puo’ accadere di nuovo: questo e’ il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
*
Primo Levi: Al visitatore
La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non puo’
essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle
Camere del Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del
1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. E’
vecchia sapienza, e gia’ cosi’ aveva ammonito Heine, ebreo e tedesco: chi brucia libri
finisce col bruciare uomini, la violenza e’ un seme che non si estingue.
E’ triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo
di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia e’ nato in Italia. E’
il fascismo, scatenato dalla crisi del primo dopoguerra, dal mito della “vittoria mutilata”, ed
alimentato da antiche miserie e colpe; e dal fascismo nasce un delirio che si estendera’, il
culto dell’uomo provvidenziale, l’entusiasmo organizzato ed imposto, ogni decisione
affidata all’arbitrio di un solo.
Ma non tutti gli italiani sono stati fascisti: lo testimoniamo noi, gli italiani che siamo morti
qui. Accanto al fascismo, altro filo mai interrotto, e’ nato in Italia, prima che altrove,
l’antifascismo. Insieme con noi testimoniano tutti coloro che contro il fascismo hanno
combattuto e che a causa del fascismo hanno sofferto, i martiri operai di Torino del 1923, i
carcerati, i confinati, gli esuli, ed i nostri fratelli di tutte le fedi politiche che sono morti per
resistere al fascismo restaurato dall’invasore nazionalsocialista.
E testimoniano insieme a noi altri italiani ancora, quelli che sono caduti su tutti i fronti della
II Guerra Mondiale, combattendo malvolentieri e disperatamente contro un nemico che
non era il loro nemico, ed accorgendosi troppo tardi dell’inganno. Sono anche loro vittime
del fascismo: vittime inconsapevoli.
Noi non siamo stati inconsapevoli. Alcuni fra noi erano partigiani; combattenti politici; sono
stati catturati e deportati negli ultimi mesi di guerra, e sono morti qui, mentre il Terzo Reich
crollava, straziati dal pensiero della liberazione cosi’ vicina.
La maggior parte fra noi erano ebrei: ebrei provenienti da tutte le citta’ italiane, ed anche
ebrei stranieri, polacchi, ungheresi, jugoslavi, cechi, tedeschi, che nell’Italia fascista,
costretta all’antisemitismo dalle leggi di Mussolini, avevano incontrato la benevolenza e la
civile ospitalita’ del popolo italiano. Erano ricchi e poveri, uomini e donne, sani e malati.
C’erano bambini fra noi, molti, e c’erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati
caricati come merci sui vagoni, e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di
Auschwitz, e’ stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secoli piu’
oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si
mandassero a morte i bambini e i moribondi. Noi, figli di cristiani ed ebrei (ma non amiamo
queste distinzioni) di un paese che e’ stato civile, e che civile e’ ritornato dopo la notte del
fascismo, qui lo testimoniamo.
In questo luogo, dove noi innocenti siamo stati uccisi, si e’ toccato il fondo delle barbarie.
Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu
non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la
nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa
che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, ne’ domani
ne’ mai.
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo e’ un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un si’ o per un no.
Considerate se questa e’ una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piu’ forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo e’ stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
10 gennaio 1946
*
Primo Levi: Alzarsi
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finche’ suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawac”:
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre e’ sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawac”.
11 gennaio 1946
*
Primo Levi: Si immagini ora un uomo…
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa,
le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sara’ un uomo
vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignita’ e discernimento, poiche’ accade
facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potra’ a cuor
leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinita’ umana; nel caso
piu’ fortunato, in base ad un puro giudizio di utilita’. Si comprendera’ allora il duplice
significato del termine “Campo di annientamento”…
*
Primo Levi: Che appunto perche’…
Che appunto perche’ il Lager e’ una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non
dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si puo’ sopravvivere, e percio’ si deve
voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere e’
importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civilta’.
Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma
che una facolta’ ci e’ rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perche’ e’ l’ultima: la
facolta’ di negare il nostro consenso.
*
Primo Levi: Verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio
1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (…).
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori
imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono
a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano
imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (…).
Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pieta’, da un confuso
ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la
stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta
che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non
conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde
che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e
che la sua volonta’ buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
*
Primo Levi: Hurbinek
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un
albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per
conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva
bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col
tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek mori’ ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non
redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
*
Primo Levi: Approdo
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro se’ mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si e’ tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme ne’ spera ne’ aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.
10 settembre 1964
*
Primo Levi: La bambina di Pompei
Poiche’ l’angoscia di ciascuno e’ la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si e’ fatto nero.
Invano, perche’ l’aria volta in veleno
E’ filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta gia’ del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si e’ pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Cosi’ tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta e’ stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
20 novembre 1978
*
Primo Levi: Non ci sono demoni…
Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il
nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato,
consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che
e’ senza ritorno.
*
Primo Levi: Partigia
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
La’ dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’e’ congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sara’ duro,
Ci sara’ duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perche’ nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno e’ nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non e’ mai finita.
23 luglio 1981
*
Primo Levi: Il superstite
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’e’.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno e’ morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non e’ mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
4 febbraio 1984
*
Primo Levi: Contro il dolore
E’ difficile compito di ogni uomo diminuire per quanto puo’ la tremenda mole di questa
“sostanza” che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme; ed e’ strano, ma bello, che
a questo imperativo si giunga anche a partire da presupposti radicalmente diversi.
*
Primo Levi: Canto dei morti invano
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purche’ trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perche’ siamo i vinti.
Invulnerabili perche’ gia’ spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finche’ la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
14 gennaio 1985
*
Primo Levi: Agli amici
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purche’ fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.
16 dicembre 1985
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Primo Levi: La vergogna del mondo
E c’e’ un’altra vergogna piu’ vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente
da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che “nessun uomo e’
un’isola”, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’e’ chi davanti alla
colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, cosi’ da non vederla e non sentirsene toccato:
cosi’ hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il
non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di
complicita’ o di connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il “partial shelter” di
T. S. Eliot, e’ stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e
presente, ci circondava, ed il suo livello e’ salito di anno in anno fino quasi a sommergerci.
Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perche’ era tutto intorno, in ogni
direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, ne’ abbiamo voluto, essere isole; i giusti
fra noi, non piu’ ne’ meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato
rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa,
ed in cui si sono sentiti coinvolti, perche’ sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro,
ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai piu’;
avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente
capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore e’ la sola forza che si crei dal
nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.
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Primo Levi: Il nocciolo di quanto abbiamo da dire
L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti e’ estranea alle nuove
generazioni dell’Occidente, e sempre piu’ estranea si va facendo a mano a mano che
passano gli anni (…).
Per noi, parlare con i giovani e’ sempre piu’ difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed
insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati.
Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati
collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto
perche’ inaspettato, non previsto da nessuno. E’ avvenuto contro ogni previsione; e’
avvenuto in Europa; incredibilmente, e’ avvenuto che un intero popolo civile, appena
uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi
muove al riso; eppure Adolf Hitler e’ stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E’
avvenuto, quindi puo’ accadere di nuovo: questo e’ il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
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Primo Levi: Al visitatore
La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non puo’
essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle
Camere del Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del
1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. E’
vecchia sapienza, e gia’ cosi’ aveva ammonito Heine, ebreo e tedesco: chi brucia libri
finisce col bruciare uomini, la violenza e’ un seme che non si estingue.
E’ triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo
di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia e’ nato in Italia. E’
il fascismo, scatenato dalla crisi del primo dopoguerra, dal mito della “vittoria mutilata”, ed
alimentato da antiche miserie e colpe; e dal fascismo nasce un delirio che si estendera’, il
culto dell’uomo provvidenziale, l’entusiasmo organizzato ed imposto, ogni decisione
affidata all’arbitrio di un solo.
Ma non tutti gli italiani sono stati fascisti: lo testimoniamo noi, gli italiani che siamo morti
qui. Accanto al fascismo, altro filo mai interrotto, e’ nato in Italia, prima che altrove,
l’antifascismo. Insieme con noi testimoniano tutti coloro che contro il fascismo hanno
combattuto e che a causa del fascismo hanno sofferto, i martiri operai di Torino del 1923, i
carcerati, i confinati, gli esuli, ed i nostri fratelli di tutte le fedi politiche che sono morti per
resistere al fascismo restaurato dall’invasore nazionalsocialista.
E testimoniano insieme a noi altri italiani ancora, quelli che sono caduti su tutti i fronti della
II Guerra Mondiale, combattendo malvolentieri e disperatamente contro un nemico che
non era il loro nemico, ed accorgendosi troppo tardi dell’inganno. Sono anche loro vittime
del fascismo: vittime inconsapevoli.
Noi non siamo stati inconsapevoli. Alcuni fra noi erano partigiani; combattenti politici; sono
stati catturati e deportati negli ultimi mesi di guerra, e sono morti qui, mentre il Terzo Reich
crollava, straziati dal pensiero della liberazione cosi’ vicina.
La maggior parte fra noi erano ebrei: ebrei provenienti da tutte le citta’ italiane, ed anche
ebrei stranieri, polacchi, ungheresi, jugoslavi, cechi, tedeschi, che nell’Italia fascista,
costretta all’antisemitismo dalle leggi di Mussolini, avevano incontrato la benevolenza e la
civile ospitalita’ del popolo italiano. Erano ricchi e poveri, uomini e donne, sani e malati.
C’erano bambini fra noi, molti, e c’erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati
caricati come merci sui vagoni, e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di
Auschwitz, e’ stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secoli piu’
oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si
mandassero a morte i bambini e i moribondi. Noi, figli di cristiani ed ebrei (ma non amiamo
queste distinzioni) di un paese che e’ stato civile, e che civile e’ ritornato dopo la notte del
fascismo, qui lo testimoniamo.
In questo luogo, dove noi innocenti siamo stati uccisi, si e’ toccato il fondo delle barbarie.
Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu
non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la
nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa
che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, ne’ domani
ne’ mai.