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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza
Ieri contro le centrali nucleari, oggi contro una collocazione irresponsabile del
deposito nucleare nazionale
Di cosa parlavamo quarant’anni fa e di cosa parliamo oggi. Quarant’anni fa i movimenti
antinucleari si concentravano sui pericoli delle centrali nucleari già installate o pianificate,
sottolineandone i rischi in fase di esercizio, le inevitabili scorie radioattive, il possibile
utilizzo in campo militare, la centralizzazione, i costi e, per contro, la disponibilità di
alternative valide rappresentate dall’aumento dell’efficienza energetica nella produzione e
nel consumo e dalle fonti rinnovabili e pulite come quella solare. Si poneva anche
l’accento sulla limitata produzione elettrica totale delle quattro centrali italiane, pari, in tutta
la loro vita, a 93 miliardi di kWh che il nostro Paese consuma in circa quattro mesi. Si
faceva notare che ogni chilowattora prodotto dal nucleare ci aveva lasciato in eredità
scorie radioattive per oltre 50 milioni di Bq.
Oggi associazioni e comitati, oltre a ribadire la contrarietà a qualsiasi velleità di
riutilizzare in Italia l’energia nucleare, né di terza, né di quarta generazione, e neanche da
fusione, e a sottolineare che i soli impianti fotovoltaici, solo negli ultimi quattro anni, hanno
superato la produzione nucleare complessiva delle quattro centrali nucleari, sono
preoccupati dei residui radioattivi dell’attività pregressa di queste centrali e dei relativi
impianti di fabbricazione e riprocessamento, nonché di ricerca, e ritengono che sia
doveroso farsi collettivamente carico di mettere questi materiali radioattivi in una
condizione che determini il minor rischio possibile per tutti. Oggi purtroppo non è così!
Il rapporto annuale di ISIN fotografa la situazione di ben 25 luoghi in Italia nei quali vi
sono: . rifiuti radioattivi, . strutture divenute radioattive perché attivate o contaminate, .
barre di combustibile il cui ritrattamento in Francia è già contrattualmente previsto, . barre
di combustibile non ritrattabili, . rifiuti da attività sanitarie e industriali, . materiali radioattivi
di origine militare. Sì, vi sono anche materiali radioattivi di origine militare, in quanto il Dlgs
31 luglio 2020, n. 101, prevede: Art. 242 Disposizioni particolari per il Ministero della difesa
(direttiva 2013/59/ ((Euratom)), articoli. 1, 2; decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 230,
articolo 162). 3. I rifiuti radioattivi, a bassa e media attività, derivanti da attività industriali,
di ricerca e medico-sanitarie e dalla pregressa gestione di impianti nucleari, dei comandi e
degli enti dell'Amministrazione della difesa confluiscono, a titolo definitivo, nel deposito
nazionale secondo le modalità previste dalle norme vigenti. Le funzioni ispettive sul
processo di trattamento, di condizionamento e di stoccaggio sono eseguite presso la
dedicata area del Centro interforze per gli studi e le applicazioni militari (CISAM), dall'ISIN
secondo le modalità di cui all'articolo 9. Infine, ci sarebbero anche i rifiuti derivanti dal
riprocessamento delle barre di combustibile dopo il loro utilizzo nelle varie centrali, quelle
che ora, ad eccezione della parte rimasta ancora a Saluggia nel Deposito Avogadro, sono
in Francia e in Inghilterra, ma i contratti prevedono il loro ritorno in Italia dal 2025 in poi. La
classificazione dei materiali radioattivi, per attività e durata Il Decreto 7 agosto 2015
“Classificazione dei rifiuti radioattivi, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo
2014, n. 45” classifica i materiali radioattivi in ben sei categorie, in funzione della loro
attività e della loro “durata”.
La destinazione dei materiali radioattivi secondo le norme vigenti. A seconda della
loro “categoria”, i materiali radioattivi dopo il loro utilizzo sono destinati: Attività molto
bassa o bassa: al Deposito di smaltimento, cioè, collocati in un deposito in superficie,
vigilati per alcune centinaia di anni e poi lasciati lì per sempre; Attività media o alta: al
Deposito temporaneo di lunga durata, collocato secondo le norme vigenti accanto al
Deposito di smaltimento superficiale, in attesa di essere poi smaltiti in depositi sotterranei
dove devono rimanere isolati per decine di migliaia di anni. La “bassa attività” non è poi
così bassa o poco duratura. I materiali radioattivi classificati come “a bassa attività”, a ben
vedere, non sono poi così insignificanti, e necessitano di un confinamento e di un
isolamento per un periodo di alcune centinaia di anni, dopo di che vengono lasciati lì dove
sono. Per i radionuclidi a vita breve la radioattività può arrivare fino a 5 milioni di
Becquerel/grammo, mentre può arrivare a 40.000 Bq/g per gli isotopi a lunga vita del
Nichel, e fino a 400 Bq/g per i radionuclidi a lunga vitaSe prendiamo come esempio il
Nichel 63 che ha un tempo di dimezzamento di 100 anni, dopo 300 anni la radioattività si è
ridotta a un ottavo, cioè a 5.000 Bq/g, o 5 milioni di Bq per kg, che non è cosa per nulla
trascurabile. Per non parlare degli isotopi a lunga vita che hanno un tempo di
dimezzamento di millenni, e che dopo 300 anni sarebbero praticamente radioattivi quasi
come all’inizio e che possono arrivare a 400 Bq/g, cioè 400.000 Bq/kg. E non è molto
tranquillizzante leggere nella Guida Tecnica n. 32 di ISIN che “Al termine del periodo di
controllo istituzionale dell’impianto di smaltimento in superficie di rifiuti radioattivi
l’esercente dovrà collocare nell’area occupata dall’impianto di smaltimento chiare, fisse e,
per quanto possibile, durature segnalazioni indicative della presenza dell’impianto al fine di
minimizzare la probabilità di intrusioni”.
Materiali radioattivi, come minimizzare i rischi per tutti? Per i materiali radioattivi
pregressi è necessario un deposito unico nazionale, in quanto in questo modo si può
garantire maggiore sorveglianza e sicurezza complessiva e si può scegliere un sito che
determini per tutti il minor rischio possibile La Guida Tecnica 29 di ISPRA/ISIN, validata a
livello internazionale, prevede numerosi “Criteri di Esclusione”, definiti per escludere le
aree del territorio nazionale le cui caratteristiche non permettono di garantire piena
rispondenza ai requisiti che devono assicurare i necessari margini di sicurezza per il
confinamento e l’isolamento dei rifiuti dal contatto con la biosfera. L’applicazione dei
“Criteri di Esclusione” è stata finora effettuata attraverso verifiche basate su normative,
dati e conoscenze tecniche disponibili per l’intero territorio nazionale e immediatamente
fruibili, anche mediante l’utilizzo dei Sistemi Informativi Geografici. A titolo di esempio la
Guida Tecnica 29 di ISPRA/ ISIN prevede che “sono da escludere le aree caratterizzate
da livelli piezometrici affioranti o che, comunque, possano interferire con le strutture di
fondazione del deposito. La prossimità di acque del sottosuolo, nelle loro variazioni di
livello stagionali e non stagionali conosciute, può ridurre il grado di isolamento del deposito
e favorire fenomeni di trasferimento di radionuclidi verso la biosfera. Per lo stesso motivo
sono da escludere le aree con presenza di sorgenti e di opere di presa di acquedotti”.
(CE10). Il concetto che anima questi criteri di esclusione è quello della ridondanza di
sicurezza nello smaltimento, cioè avere sempre una doppia garanzia, sia di tipo naturale,
sia di tipo tecnologico, anche se si tratta dei rifiuti meno attivi e meno longevi, perché
comunque contengono anche sostanze radioattive a lunga vita. Nel Seminario Nazionale,
il 16 novembre 2021, nel suo intervento, Michele Rosati (Sogin) ha spiegato bene questa
“filosofia”: “Il CE10 chiede espressamente di escludere le aree in cui la falda è superficiale
per tenere lontano il Deposito Nazionale dalle acque sotterranee; questo per limitare la
possibilità di trasferimento di radionuclidi nel sottosuolo che è la via attraverso la quale
attraverso la falda potrebbero arrivare alla biosfera. Questo, quindi, è uno degli aspetti
chiave della sicurezza del Deposito Nazionale. Si inserisce all’interno di una sequenza di
sicurezze che noi chiamiamo ridondanza, perché non è il solo elemento di sicurezza per il
Deposito. In ingegneria la ridondanza di sicurezza è la moltiplicazione delle salvaguardie
che garantiscono la sicurezza, in modo che, se una non funzionasse, ce ne sarebbe
un’altra che impedirebbe il verificarsi di un elemento negativo. Per fare un altro esempio
relativo alla CNAPI, nonostante il CE2 ci chieda di escludere le aree a bassa sismicità, il
progetto sarà sottoposto a verifiche per eventi sismici ben oltre quelli tipici delle zone a
bassa sismicità”. Ha senso fare il Deposito nucleare nazionale in mezzo alle risaie? Il
Ministero MASE ha pubblicato la mappa dei siti selezionati come idonei e le
autocandidature avrebbero dovuto essere permesse solamente a quei Comuni le cui aree
fossero risultate “idonee”, senza furberie che privilegino gli interessi politici rispetto alla
sicurezza dei cittadini. Oggi invece a Trino, nonostante che questo territorio sia stato
escluso perché ritenuto ufficialmente inidoneo, c’è qualcuno che vorrebbe che il Deposito
fosse realizzato proprio lì, in mezzo alle risaie del vercellese.
deposito nucleare nazionale
Di cosa parlavamo quarant’anni fa e di cosa parliamo oggi. Quarant’anni fa i movimenti
antinucleari si concentravano sui pericoli delle centrali nucleari già installate o pianificate,
sottolineandone i rischi in fase di esercizio, le inevitabili scorie radioattive, il possibile
utilizzo in campo militare, la centralizzazione, i costi e, per contro, la disponibilità di
alternative valide rappresentate dall’aumento dell’efficienza energetica nella produzione e
nel consumo e dalle fonti rinnovabili e pulite come quella solare. Si poneva anche
l’accento sulla limitata produzione elettrica totale delle quattro centrali italiane, pari, in tutta
la loro vita, a 93 miliardi di kWh che il nostro Paese consuma in circa quattro mesi. Si
faceva notare che ogni chilowattora prodotto dal nucleare ci aveva lasciato in eredità
scorie radioattive per oltre 50 milioni di Bq.
Oggi associazioni e comitati, oltre a ribadire la contrarietà a qualsiasi velleità di
riutilizzare in Italia l’energia nucleare, né di terza, né di quarta generazione, e neanche da
fusione, e a sottolineare che i soli impianti fotovoltaici, solo negli ultimi quattro anni, hanno
superato la produzione nucleare complessiva delle quattro centrali nucleari, sono
preoccupati dei residui radioattivi dell’attività pregressa di queste centrali e dei relativi
impianti di fabbricazione e riprocessamento, nonché di ricerca, e ritengono che sia
doveroso farsi collettivamente carico di mettere questi materiali radioattivi in una
condizione che determini il minor rischio possibile per tutti. Oggi purtroppo non è così!
Il rapporto annuale di ISIN fotografa la situazione di ben 25 luoghi in Italia nei quali vi
sono: . rifiuti radioattivi, . strutture divenute radioattive perché attivate o contaminate, .
barre di combustibile il cui ritrattamento in Francia è già contrattualmente previsto, . barre
di combustibile non ritrattabili, . rifiuti da attività sanitarie e industriali, . materiali radioattivi
di origine militare. Sì, vi sono anche materiali radioattivi di origine militare, in quanto il Dlgs
31 luglio 2020, n. 101, prevede: Art. 242 Disposizioni particolari per il Ministero della difesa
(direttiva 2013/59/ ((Euratom)), articoli. 1, 2; decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 230,
articolo 162). 3. I rifiuti radioattivi, a bassa e media attività, derivanti da attività industriali,
di ricerca e medico-sanitarie e dalla pregressa gestione di impianti nucleari, dei comandi e
degli enti dell'Amministrazione della difesa confluiscono, a titolo definitivo, nel deposito
nazionale secondo le modalità previste dalle norme vigenti. Le funzioni ispettive sul
processo di trattamento, di condizionamento e di stoccaggio sono eseguite presso la
dedicata area del Centro interforze per gli studi e le applicazioni militari (CISAM), dall'ISIN
secondo le modalità di cui all'articolo 9. Infine, ci sarebbero anche i rifiuti derivanti dal
riprocessamento delle barre di combustibile dopo il loro utilizzo nelle varie centrali, quelle
che ora, ad eccezione della parte rimasta ancora a Saluggia nel Deposito Avogadro, sono
in Francia e in Inghilterra, ma i contratti prevedono il loro ritorno in Italia dal 2025 in poi. La
classificazione dei materiali radioattivi, per attività e durata Il Decreto 7 agosto 2015
“Classificazione dei rifiuti radioattivi, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo
2014, n. 45” classifica i materiali radioattivi in ben sei categorie, in funzione della loro
attività e della loro “durata”.
La destinazione dei materiali radioattivi secondo le norme vigenti. A seconda della
loro “categoria”, i materiali radioattivi dopo il loro utilizzo sono destinati: Attività molto
bassa o bassa: al Deposito di smaltimento, cioè, collocati in un deposito in superficie,
vigilati per alcune centinaia di anni e poi lasciati lì per sempre; Attività media o alta: al
Deposito temporaneo di lunga durata, collocato secondo le norme vigenti accanto al
Deposito di smaltimento superficiale, in attesa di essere poi smaltiti in depositi sotterranei
dove devono rimanere isolati per decine di migliaia di anni. La “bassa attività” non è poi
così bassa o poco duratura. I materiali radioattivi classificati come “a bassa attività”, a ben
vedere, non sono poi così insignificanti, e necessitano di un confinamento e di un
isolamento per un periodo di alcune centinaia di anni, dopo di che vengono lasciati lì dove
sono. Per i radionuclidi a vita breve la radioattività può arrivare fino a 5 milioni di
Becquerel/grammo, mentre può arrivare a 40.000 Bq/g per gli isotopi a lunga vita del
Nichel, e fino a 400 Bq/g per i radionuclidi a lunga vitaSe prendiamo come esempio il
Nichel 63 che ha un tempo di dimezzamento di 100 anni, dopo 300 anni la radioattività si è
ridotta a un ottavo, cioè a 5.000 Bq/g, o 5 milioni di Bq per kg, che non è cosa per nulla
trascurabile. Per non parlare degli isotopi a lunga vita che hanno un tempo di
dimezzamento di millenni, e che dopo 300 anni sarebbero praticamente radioattivi quasi
come all’inizio e che possono arrivare a 400 Bq/g, cioè 400.000 Bq/kg. E non è molto
tranquillizzante leggere nella Guida Tecnica n. 32 di ISIN che “Al termine del periodo di
controllo istituzionale dell’impianto di smaltimento in superficie di rifiuti radioattivi
l’esercente dovrà collocare nell’area occupata dall’impianto di smaltimento chiare, fisse e,
per quanto possibile, durature segnalazioni indicative della presenza dell’impianto al fine di
minimizzare la probabilità di intrusioni”.
Materiali radioattivi, come minimizzare i rischi per tutti? Per i materiali radioattivi
pregressi è necessario un deposito unico nazionale, in quanto in questo modo si può
garantire maggiore sorveglianza e sicurezza complessiva e si può scegliere un sito che
determini per tutti il minor rischio possibile La Guida Tecnica 29 di ISPRA/ISIN, validata a
livello internazionale, prevede numerosi “Criteri di Esclusione”, definiti per escludere le
aree del territorio nazionale le cui caratteristiche non permettono di garantire piena
rispondenza ai requisiti che devono assicurare i necessari margini di sicurezza per il
confinamento e l’isolamento dei rifiuti dal contatto con la biosfera. L’applicazione dei
“Criteri di Esclusione” è stata finora effettuata attraverso verifiche basate su normative,
dati e conoscenze tecniche disponibili per l’intero territorio nazionale e immediatamente
fruibili, anche mediante l’utilizzo dei Sistemi Informativi Geografici. A titolo di esempio la
Guida Tecnica 29 di ISPRA/ ISIN prevede che “sono da escludere le aree caratterizzate
da livelli piezometrici affioranti o che, comunque, possano interferire con le strutture di
fondazione del deposito. La prossimità di acque del sottosuolo, nelle loro variazioni di
livello stagionali e non stagionali conosciute, può ridurre il grado di isolamento del deposito
e favorire fenomeni di trasferimento di radionuclidi verso la biosfera. Per lo stesso motivo
sono da escludere le aree con presenza di sorgenti e di opere di presa di acquedotti”.
(CE10). Il concetto che anima questi criteri di esclusione è quello della ridondanza di
sicurezza nello smaltimento, cioè avere sempre una doppia garanzia, sia di tipo naturale,
sia di tipo tecnologico, anche se si tratta dei rifiuti meno attivi e meno longevi, perché
comunque contengono anche sostanze radioattive a lunga vita. Nel Seminario Nazionale,
il 16 novembre 2021, nel suo intervento, Michele Rosati (Sogin) ha spiegato bene questa
“filosofia”: “Il CE10 chiede espressamente di escludere le aree in cui la falda è superficiale
per tenere lontano il Deposito Nazionale dalle acque sotterranee; questo per limitare la
possibilità di trasferimento di radionuclidi nel sottosuolo che è la via attraverso la quale
attraverso la falda potrebbero arrivare alla biosfera. Questo, quindi, è uno degli aspetti
chiave della sicurezza del Deposito Nazionale. Si inserisce all’interno di una sequenza di
sicurezze che noi chiamiamo ridondanza, perché non è il solo elemento di sicurezza per il
Deposito. In ingegneria la ridondanza di sicurezza è la moltiplicazione delle salvaguardie
che garantiscono la sicurezza, in modo che, se una non funzionasse, ce ne sarebbe
un’altra che impedirebbe il verificarsi di un elemento negativo. Per fare un altro esempio
relativo alla CNAPI, nonostante il CE2 ci chieda di escludere le aree a bassa sismicità, il
progetto sarà sottoposto a verifiche per eventi sismici ben oltre quelli tipici delle zone a
bassa sismicità”. Ha senso fare il Deposito nucleare nazionale in mezzo alle risaie? Il
Ministero MASE ha pubblicato la mappa dei siti selezionati come idonei e le
autocandidature avrebbero dovuto essere permesse solamente a quei Comuni le cui aree
fossero risultate “idonee”, senza furberie che privilegino gli interessi politici rispetto alla
sicurezza dei cittadini. Oggi invece a Trino, nonostante che questo territorio sia stato
escluso perché ritenuto ufficialmente inidoneo, c’è qualcuno che vorrebbe che il Deposito
fosse realizzato proprio lì, in mezzo alle risaie del vercellese.