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Movimenti di Lotta per la Salute, l'Ambiente, la Pace e la Nonviolenza

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Sull'Appennino Ligure, tra Genova e Alessandria nella primavera del 1944, operavano due
brigate partigiane, la Brigata Autonoma Alessandria e la 3ª Brigata Garibaldi Liguria, comandata dal
capitano degli alpini Edmondo Tosi. Le brigate Garibaldi erano composte da giovani poco armati, ma
intenzionati a combattere le truppe tedesche e fasciste e a rifiutare l'obbligo di entrare
nell'esercito fascista repubblicano, sancito dal bando Graziani del 18 febbraio.
Tra il 3 e 6 aprile reparti tedeschi appoggiati da quattro compagnie della Guardia Nazionale
Repubblicana italiane (due provenienti da Alessandria e due da Genova) e da un reparto del
reggimento di Granatieri di stanza a Bolzaneto, accerchiarono la zona del Tobbio partendo
da Busalla, Pontedecimo, Masone, Campo Ligure, Mornese, Lerma. Il 6 aprile iniziarono gli scontri
armati e mentre la 3ª Brigata Garibaldi Liguria cercò di rompere l'assedio dividendo i propri uomini in
piccoli gruppi, la Brigata Autonoma Alessandria cercò una disperata difesa alla Benedicta e a Pian degli
Eremiti.
Posizione dell'ex Abbazia della Benedicta.[1]
Il monastero della Benedicta, in cui si erano rifugiati gli uomini disarmati o meno esperti (secondo le
testimonianze dei superstiti la grande maggioranza degli uomini delle due brigate era male armata o
non armata) venne minato e fatto esplodere. Nell'elenco delle 172 armi da fuoco sequestrate dai
nazifascisti al termine delle operazioni di rastrellamento, figurano solo pochi fucili mitragliatori
statunitensi. La maggior parte dell'armamento in dotazione ai partigiani era costituito da fucili da caccia
a pallettoni e da 11 pistole ad avancarica, probabili cimeli famigliari risalenti al Risorgimento.
Le perdite nazifasciste furono di 4 morti (3 tedeschi e 1 italiano) e 24 feriti (16 tedeschi e 8 italiani), 11
dei quali in gravi condizioni.
[2]
Le forze partigiane, tra gli scontri e le fucilazioni, ebbero invece 147 morti,
poi sepolti in una fossa comune. Tra questi, 75 partigiani catturati furono fucilati
dai Granatieri repubblichini comandati da un ufficiale tedesco. Si salvò solo Giuseppe Ennio Odino,
ritenuto morto.
Una parte dei partigiani catturati fu trasferita nel carcere genovese di Marassi, mentre altri furono inviati
a Novi Ligure. I renitenti alla leva presentatisi spontaneamente accogliendo l'invito delle SS che
avevano promesso il condono della pena a chi si fosse costituito, furono deportati in Germania: su 351
deportati, 140 moriranno nei lager tedeschi.
Altri 17 partigiani fatti prigionieri durante il rastrellamento furono fucilati il 19 maggio nei pressi
del passo del Turchino, insieme ad altri 42 prigionieri, come rappresaglia per un attentato contro alcuni
soldati tedeschi al cinema Odeon di Genova, in quella che sarà poi ricordata come la strage del
Turchino.
Nelle intenzioni dei tedeschi l'eccidio doveva far crollare nella popolazione il sostegno alla resistenza,
ma il numero dei morti e la particolare efferatezza delle esecuzioni, oltre all'inganno nel far costituire i
giovani che stavano fuggendo dalla chiamata alle armi, ebbero l'effetto opposto, aumentando l'odio
della popolazione locale nei confronti dei fascisti repubblicani e delle truppe tedesche. Un gruppo di
partigiani della Val Polcevera, aiutati dai militi della Croce Verde di Pontedecimo, si adoperò per
recuperare in seguito le salme dei fucilati.
Nella notte tra il 25 e 26 giugno 1944 alcuni sten usati dai partigiani alla Benedicta vennero reimpiegati
da una squadra partigiana comandata da Gino Tasso 'Tigre' per impossessarsi dell'esplosivo con cui i
nazifascisti avevano minato la galleria di Boasi.
[3]